Note di regia di "Non ne Parliamo di questa Guerra"
Le vicende della Grande Guerra che questo film documentario si è proposto di narrare, sono note ai ricercatori ma sconosciute ai più, ai giovani soprattutto.
Sono storie di ribelli di guerra, di un passato che non passa.
Pur essendo un documentario storico, il film ha una struttura originale che ho già attuato in alcuni miei precedenti lavori di argomento storico, come “Medusa – Storie di uomini sul fondo” e “Più in alto delle nuvole”. Caratteristica dei miei film documentari è infatti l’intreccio di linguaggi, di testimonianze, documenti, musica, archivi, canzoni e talvolta animazioni, e l’assenza della voce fuori campo.
In Non ne parliamo di questa guerra la narrazione procede da alcune canzoni di guerra e di rivolta, disseminate nel film a suggerire un ipotetico concerto da cui si dipanano e si intrecciano storie, luoghi, testimonianze, film d’archivio, piéces teatrali, documenti, sottolineature musicali, in un’alternanza e in un crescendo di conoscenza e di commozione per un fenomeno, quello della disobbedienza nella Grande Guerra che fu tutt’altro che marginale.
Fondamentali sono le testimonianze degli storici - tra i più noti Bruna Bianchi dell’Università di Venezia e Marco Revelli dell’Università di Torino; di alcuni scrittori, il triestino Pietro Spirito e il friulano Carlo Tolazzi, ma anche di ricercatori e storici di prossimità, veri esploratori di memorie, attrezzatissimi nello scavo dei giacimenti umani di storia locale, conoscitori di luoghi e dettagli, capaci di restituire anche visivamente della vicenda narrata ogni aspetto minuto. I filmati d’archivio provengono dalla Cineteca del Friuli e dall’Istituto Luce, i documenti e fotografie sono tratti dall’immenso deposito di materiali dell’Archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito a Roma. Altre fonti sono gli archivi storici dei giornali del tempo e le collezioni private.
In un film documentario che parla di disobbedienti alla guerra, la precisione della ricerca e della testimonianza, è fondamentale, necessaria per restituire dignità a coloro che trovarono il coraggio di dire no (spesso semplicemente balbettarlo) e di rivoltarsi collettivamente o isolatamente come individui. Nella cornice generale della terribile disciplina di guerra voluta dal Generale Cadorna, dei traumi psicologici provocati dalle bombe, della vita in trincea, degli assalti suicidi, dell’autolesionismo, il film approfondisce alcune vicende del grande massacro: episodi di diserzione che trovarono sostegno tra i braccianti del Polesine, la storia dell’artigliere Alessandro Ruffini di Castefidardo, preso a bastonate, poi fucilato dal generale Graziani (il generale fucilatore); il processo agli alpini del battaglione Monte Arvenis fucilati perché ribelli a un assalto suicida, la grande e tragica rivolta dei fanti della Brigata Catanzaro; la “pazzia” di D’Annunzio che mandò i Lupi di Toscana alla morte su Quota 28 e la grande rivolta civile di Torino nell’agosto del ’17 che da protesta per la mancanza di pane si trasformò in un’insurrezione contro la guerra.
Storie di disobbedienti, di uomini contro, di contadini, di fanti, “santi maledetti” come li chiamò Curzio Malaparte nel suo celebre atto di accusa contro chi aveva diretto la guerra. Erano contadini per lo più, abituati a ubbidire. Avevano affrontato la guerra così come si affronta un cattivo raccolto, una grandinata, una carestia, sostenuti dai valori di una cultura che predicava perseveranza, laboriosità, rispetto delle gerarchie. Seppero infine disubbidire e la loro “disobbedienza” oggi è un valore da ricordare.
Fredo Valla
“Il privato cittadino ha modo durante questa guerra di persuadersi con terrore di un fatto che occasionalmente già in tempo di pace lo ha colpito: è cioè che lo Stato ha interdetto al singolo l’uso dell’ingiustizia, non perché intende sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla, come i sali e i tabacchi. Lo Stato in guerra ritiene per sé lecita ingiustizia e violenza che disonorerebbero l’individuo singolo … e il cittadino è tenuto ad approvare tutto ciò in nome del patriottismo”
Sigmund Freud, in “La guerra disillude”, 1915