Note di regia di "Il Cacciatore"
“
Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la dritta via era smarrita.”
Dante, Divina commedia, Primo canto dell’Inferno
Il Cacciatore racconta una delle pagine più spettacolari e cruente della lotta tra lo Stato e la mafia siciliana nei primi anni '90. L’arresto di boss come Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Vito Vitale, Pietro Aglieri e tanti altri, responsabili di pagine dolorose della recente storia d’Italia: le bombe di Firenze, Bologna e Milano; le stragi di Capaci e Via D’Amelio, in cui perdono la vita i giudici Falcone e Borsellino; il rapimento del piccolo Giuseppe, 12 anni, figlio del pentito Santino Di Matteo, che segna un punto di non ritorno nella storia della mafia siciliana, che fino a quel momento aveva rispettato il sacro vincolo di non toccare i bambini.
Ma Il Cacciatore è soprattutto la storia di una discesa all’inferno. Un impianto visivo crudo, sporco, oscuro, accompagnerà il racconto di un percorso che parte dalla luce e conduce nell’ombra più fitta. Saverio Barone ha solo 30 anni il giorno in cui entra a far parte del pool antimafia. I suoi colleghi sono più vecchi di lui, vivono sotto scorta e sono tutti fumatori incalliti: nei loro occhi la consapevolezza di chi sa che potrebbe saltare in aria da un momento all’altro.
I magistrati condividono indagini e strategie all’interno di una sala stretta, con un lungo tavolo nel mezzo, la cosiddetta “sala della DDA”. Poi scaricano la tensione sul tetto della procura, dove hanno installato un tavolo da biliardino, ma la presenza dei cecchini dell’esercito sullo sfondo, finisce per ricordargli anche in quei momenti di relax che la loro non può essere una vita normale. Allo stesso modo, anche i mafiosi hanno un proprio luogo d’elezione: la “camera della morte”, un magazzino sudicio e isolato, dove vengono strangolati mafiosi e innocenti, dove il sangue dei cadaveri fatti a pezzi scorre quotidianamente. Dove i corpi vengono dissolti per sempre all’interno di taniche di acido. Un luogo in cui si entra ma da cui non si esce. Mai, nemmeno da morti.
Saverio è giovane PM, intelligente e ambizioso. È cresciuto in un piccolo paese tra i boschi, Bivona, e tra i cacciatori di quel posto, da bambino, ha imparato che il segreto di una buona caccia sta in un mix di tattica e istinto. Il cacciatore impara a ragionare come le sue prede, entra nelle loro teste per riuscire ad anticiparne le mosse.
Oggi le prede di Saverio sono boss crudeli, che uccidono a mani nude e dissolvono cadaveri nell’acido. Sono i Corleonesi, una stirpe di mafiosi efferati, con facce e modi da contadino, che provengono da un piccolo paese incastonato tra le montagne. Sono macellai e mandriani, abituati a considerare la vita di un uomo alla stregua di quella di una pecora o di una mucca.
L’ascesa professionale di Saverio coincide con indagini su latitanti sempre più sanguinari e sempre più potenti, perché nel sistema di valori dei Corleonesi comanda chi è disposto a sporcarsi di più le mani, in prima persona. Entrare nella testa di queste prede significa addentrarsi in un territorio oscuro, un bosco sempre più fitto. Entrare nella soggettiva di queste bestie sanguinarie significa farsi avvolgere dal male e, in un certo senso, lasciarsi permeare da esso. Una discesa in un inferno anche interiore, da cui, inevitabilmente, non si torna indietro.
Quando poi le indagini di Saverio lo portano, in maniera inaspettata, a fare i conti con il proprio passato, ecco che il giovane pm abbassa definitivamente le difese e l’oscurità si fa largo dentro di lui andando a soffocare ogni residuo spiraglio di luce. La luce, fino a quel momento, era rappresentata da Giada, la sua compagna, la madre di sua figlia Carlotta. Giada per Saverio è sempre stata l’ancora di salvezza che gli ha impedito di prendere il largo nell’oceano delle sue ossessioni. Giada per Saverio è luce, colore, ossigeno. Ma adesso per la luce non c’è più spazio. Adesso c’è solo un’ombra che, il nostro protagonista, sente di dover affrontare da solo.
Stefano Lodovichi e
Davide Marengo