Note di regia del film "L'Ospite"
L'idea di questo film è quella di raccontare quel passaggio della vita legato alla fine di un amore in tutta la sua dolorosa ed anche ironica complessità. Dal tentativo di arrestare il corso degli eventi, convinti che ci sia un gesto che possiamo compiere, o una frase che possiamo dire per riavere con noi la persona amata, all’affannosa ricerca di questo gesto nei consigli degli altri (che ci appaiono improvvisamente saggi ed illuminati quando invece hanno i nostri stessi problemi e insicurezze). In questo percorso siamo spesso portati a mutare il nostro sguardo sulla nostra esistenza: ci vediamo improvvisamente persi e smarriti e cerchiamo così di ridefinirci e migliorarci in tutti gli aspetti che ancora possiamo controllare, come se quel gesto sospeso per non perdere l’altro potessimo ancora compierlo per recuperare noi stessi.
Un percorso che assomiglia molto a quello dei viaggi più avventurosi quando da un luogo conosciuto ci inoltriamo verso l’ignoto con in testa solo una meta vaga, come la ricerca della felicità; un viaggio pieno di battute d’arresto nel quale tuttavia ogni passo compiuto ci aiuta a comprendere qualcosa di più su noi stessi e nel quale un contributo fondamentale arriva dalle persone che incontriamo sul cammino, capaci di donarci un punto di vista diverso sulle cose per aiutarci ad arrivare a quella “guarigione” che all’inizio sembrava tanto lontana.
Sin da quando ho iniziato a pensare a questa storia di separazione e rinascita ero guidato dalla sensazione che qualcosa stesse accadendo un po’ troppo tardi nella vita del protagonista Guido, come se vi fosse una leggera discronia tra i tempi della sua crescita interiore e psicologica e quelli del suo ciclo biologico. Questa sensazione di malinconica verità che sentivo e sento tuttora molto vicina al mio vissuto e a quello di molti coetanei, mi ha dato l'intuizione che forse un “romanzo di formazione tardivo” potesse essere un modo vero e sincero per raccontare alcune caratteristiche della generazione “iper-formata” alla quale appartengo, una generazione che ha passato anni a specializzarsi teoricamente in mille discipline universitarie e che tuttavia stenta a trovare lo spazio per esercitare concretamente le proprie conoscenze, come se avesse sempre bisogno di nuove conferme prima di prendere una decisione che potrebbe poi rivelarsi sbagliata.
Da questa intuizione iniziale ho successivamente maturato l’idea di raccontare questo momento di crescita in un uomo che si avvicina alla quarantina provando ad avvicinarmi ed osservarlo da tanti punti di vista diversi, uno per ogni lato della sua personalità; ho iniziato così a pensare alle conseguenze della crisi della sua relazione sentimentale in relazione alle sue insoddisfazioni lavorative ma soprattutto in relazione alla sua dimensione di figlio. Nascendo questa storia da un desiderio di paternità non corrisposto dalla sua compagna, mi sembrava interessante andare ad osservare le conseguenze di questo mancato passaggio all’età adulta anche osservando la vita di Guido nella sua dimensione di figlio di due genitori che stanno lentamente ma inesorabilmente invecchiando; nel passaggio dal ruolo di figlio privo di responsabilità a quelle di adulto chiamato a prendersi cura dei propri genitori sentivo infatti uno spunto emotivo che mi emozionava sinceramente.
Anche se in maniera meno evidente rispetto al mio primo film “Short Skin”, anche questo film è caratterizzato dal desiderio di affrontare il tema della complessità delle relazioni sentimentali utilizzando il punto di vista di un uomo fragile. Guido, seppure quasi quarantenne, sembra soffrire delle difficoltà che caratterizzano la vita quotidiana di molti suoi coetanei, uomini che non riescono a definirsi bene nei confronti dell’altro sesso, orfani di una maniera tradizionale di essere maschio e alla ricerca di un nuovo modo di vivere la propria identità sessuale di fronte a figure femminili sempre più distanti da quelle delle loro madri. Mi sembrava da questo punto di vista interessante l’idea di raccontare il desiderio di genitorialità attribuendolo alla figura maschile della coppia e ribaltando così degli stereotipi che solo fino a qualche anno fa sembravano immutabili; questo non tanto per un criterio di originalità narrativa ma appunto per un desiderio di rappresentazione delle dinamiche relazionali che stanno affermandosi oggi.
Duccio Chiarini