Note di regia di "Io sono Rosa Parks"
Primo Levi diceva che “
bisogna ricordare perché quello che si dimentica può ritornare”. Proteggere la memoria storica è quindi un mezzo utile per difenderci da pericolosi ritorni, ma anche uno strumento prezioso per interpretare il mondo contemporaneo e per cercare di migliorarlo.
Così, il racconto del gesto compiuto da Rosa Parks e la narrazione della grande manifestazione non violenta effettuata dagli afroamericani a metà degli anni cinquanta in Alabama, divengono una lente d’ingrandimento per scovare dove si annidi, ancora oggi, nel mondo e sul nostro suolo, la linea che divide i colori della pelle, che divide i colori delle culture e soprattutto che divide i diritti …dai civili.
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Io sono Rosa Parks" ci chiede di riflettere su chi possa essere oggi, in Italia, Rosa Parks e ci invita a meditare sulla condizione di “spaesamento identitario” che vivono i così detti “figli invisibili”, ovvero quasi un milione di ragazzi di seconda generazione che si trovano ad essere, come si intitola il loro movimento, “Italiani senza cittadinanza”.
Questa “sospensione identitaria” è un’urgenza da affrontare. Non possiamo nasconderci: ce lo indicano i dibattiti mediatici sulla riforma dello ius soli o dello ius culturae, ma ce lo pone soprattutto davanti agli occhi la natura stessa del movimento di “Italiani senza cittadinanza” che, per la sua specificità e per il suo radicamento a livello nazionale, si pone come esempio unico in tutta Europa.
Inoltre è importante sottolineare che, anche una volta ottenuto un documento che attesti la nazionalità italiana, quegli uomini e quelle donne rimarranno sempre “italiani senza cittadinanza” se i nostri occhi non percepiranno, come sinonimo di italianità, un diverso colore di pelle, un vestito mediorientale o una pettinatura afro.
E questa, così com’era per Rosa Louise Parks, si chiama richiesta di desegregazione e cambiamento sociale.
La scelta di trattare il documentario come se fosse una grande installazione all’interno del MAXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, a Roma non è casuale.
I 12 protagonisti, con le loro differenti origini, sono portatori di diversi saperi che si fondono col nostro passato, dando vita alla cultura odierna del nostro paese. Sembrava dunque indicato, come parallelismo, inserirli in quello che è il primo museo nazionale dedicato alla creatività contemporanea. Non va peraltro dimenticato che la stessa Zaha Hadid, che ha impreziosito il panorama architettonico italiano progettando il MAXXI, è di per sé una figura portatrice di multiculturalismo in quanto donna irachena naturalizzata britannica.
La decisione, invece, di far muovere i protagonisti sempre lungo le passerelle e le rampe scure che attraversano lo spazio del museo come sospese nel vuoto, deriva proprio dalla stessa condizione identitaria “sospesa” dei narratori.
Le scale infatti, collegando una realtà ad un’altra, si pongono al nostro sguardo come una sorta di non luogo che riflette lo spaesamento precedentemente descritto.
Inoltre, la stessa valenza bicromatica dello spazio (scale e passerelle nere, muri bianchi e grigi) si sposa con la fotografia in bianco e nero che caratterizza il cortometraggio.
Tale scelta fotografica è stata presa per esaltare il racconto della linea della segregazione che, a cavallo del anni ‘50 e ’60, divideva effettivamente tutto il profondo sud degli Stati Uniti in “white” e “colored”.
Alessandro Garilli