PESARO FILM FESTIVAL - Il Cinema vero e il cinema a chiacchiere
Pesaro, è giovedì. Mentre l’ex
Walter Veltroni indossa altre vesti e parla sul palco centrale incontrando, a parti invertite
Giovanni Floris, sulla spiaggia, ai
Bagni 59 va in scena il cinema, quello vero, fatto da chi lo sapeva fare e non da chi non aveva altro da fare.
Via le scarpe e piedi sulla sabbia, sta per cominciare la proiezione di "
Milano Calibro 9" di
Fernando Di Leo. In pellicola. Solo spettatori veri, seduti di fronte allo schermo o sdraiati sui lettini che sanno di olio abbronzante al cocco. Zero nerd o cinefili sbiaditi dall’aria saputa (i Bagni Paradiso 59 sono lontanucci dal centro).
Malgrado passi un treno ogni tanto, la maledizione di mezze spiagge italiane, il suono ormai desueto del proiettore 35 arriva sincero da dietro, il film comincia e in un attimo sei immerso in quella che era la terza industria italiana, vera, che produceva senza contributi statali (la domanda al Ministero era un’onta per i produttori seri), dove sceneggiatori e registi si sforzavano, anche nei film minori, di dare qualcosa di nuovo e di soddisfacente al loro pubblico. "
Milano Calibro 9", arriva dalle atmosfere dei racconti di
Giorgio Scerbanenco (autore anche del soggetto), parlando di quella criminalità che nella città più operosa d’Italia si faceva strada mantenendo un profilo basso ma deciso.
Dal 68 arrivano, sullo sfondo, le contestazioni che diventeranno lotta armata, gli intrecci tra malavita e servizi e i regolamenti di conti che già erano e rimarranno terrorismo nero e di Stato, vedi la bomba in stazione, i discorsi del vice commissario progressista e “di sinistra” e il J&B, immancabile sponsor, che comincia a girare nelle mani dei più “americani”.
E poi le scenografie di
Francesco Cuppini, co-autore anche dei costumi, che riesce a trovare e a ricostruire ambienti dal design pazzesco, come l’ufficio dell’Americano o la casa di Nelly (
Barbara Bouchet), pieni di geometrie e materiali capaci di posizionare al millimetro il film nella giusta epoca.
Tutto messo su pellicola da
Franco Villa; pellicola durissima, forse 100 Asa come si usava all’epoca per i film dal budget non elevato, pellicola che inghiottiva letteralmente la luce, restituendone pochissima. Come si usava allora, rari i controluce (i proiettori si usavano per l’ambiente e i volti), molti i giochi di ombre (come nel viaggio in auto a tempo di musica) tenendo ben presente l’importanza degli attori e dei dialoghi da evidenziare con le inquadrature più strette.
Le musiche di
Luis Bacalov ricordano da vicino “Il Braccio Violento della legge” con il ritmo scandito dagli archi che accompagna l’azione e le immagini degli esterni freddi e degradati della grande città. Il film di Di Leo fa tornare alla mente il capostipite dei polizieschi di William Friedkin, tranne ovviamente che per l’inseguimento sotto ai binari sopraelevati della metropolitana.
Una storia che finisce male, una storia che oggi sarebbe impensabile da portare sullo schermo, dove i personaggi principali muoiono tutti, tranne il più antipatico che magicamente, come in ogni noir che si rispetti, cambia carattere e si trasforma nell’ultimo e unico elemento con un codice “morale” da rispettare. È l’unico superstite di una storia fredda che ci ha appassionati, senza alcun tipo di buonismo, moralismo, perbenismo. Una storia scritta e realizzata pensando agli spettatori come esseri intelligenti, in grado di comprendere e interpretare la realtà attraverso la finzione.
21/06/2019, 09:49
Stefano Amadio