Note di regia di "Brave ragazze"
Qualche anno fa, lo sceneggiatore Alberto Manni mi presentò l’embrione di questa storia, ovvero un articolo di cronaca che raccontava in poche righe la vicenda – ambientata nella provincia francese degli anni 80 - di quattro donne disperate, senza arte ne’ parte che, affogate in un mare di difficoltà e impossibilitate a (o forse incapaci di) risolverle, decidevano di dare una svolta alle loro vite impugnando le armi (in realtà, quattro pistole scacciacani) per rapinare la banca del paese travestite da uomini. A dispetto di una scarsissima possibilità di farcela, le quattro donne portarono a termine non solo quel primo colpo, ma anche altre sei rapine, spostandosi per tutta la provincia, e furono scoperte e catturate alla settima solo per un banale errore, un classico scivolone sulla buccia di banana.
L’articolo si soffermava sulle rocambolesche avventure della Banda di Avignonesi, le Amazzoni, (così furono chiamate) e raccontava come queste donne, una volta in carcere, erano diventate famose per le loro gesta – socialmente sbagliate, umanamente comprensibili: chi non ha mai espresso il desiderio di svaligiare una banca, nella vita? - finendo per dare voce a un bisogno di riscatto per altre donne che si trovavano in situazioni simili, di emergenza. Così, una ragazza madre, una donna alla ricerca della sua identità, una moglie maltrattata e una aspirante studentessa senza un soldo, da emarginate senza speranza finirono per rappresentare un simbolo di ribellione alla condizione stessa della donna. Quando sono venuta a conoscenza di questa vicenda, ho pensato immediatamente che apparteneva al mondo del cinema. C’erano la storia, l’urgenza, il tema sociale; c’erano il travestimento e l’azione, la paura e il dubbio, c’erano l’inadeguatezza e la riscossa, la commedia e il dramma, gli abusi e la vendetta, la donna di ieri che è ancora – purtroppo - quella di oggi. Abbiamo impiegato diversi anni per portare a termine una sceneggiatura che ci soddisfacesse davvero: volevamo coniugare la storia vera con il nostro immaginario, trasferire la provincia francese in quella italiana, rendere con efficacia queste donne semplici e speciali, sbagliate e amabili, impaurite e coraggiose. Capire perché, una volta in carcere, divennero icone di culto a cui tutte le donne della zona resero omaggio, andando a trovarle, occupandosi di loro e delle loro famiglie.
Cosa, in quei gesti di rabbia e disperazione era stato interpretato come un impulso di ribellione al sistema. In che modo un crimine aveva potuto trasformarsi in una presa di posizione, in un gesto di coraggio. E poi c’era la vecchia storia di Cenerentola, la ragazza che per conquistare l’uomo dei suoi sogni si traveste da principessa, manifestando fuori la nobiltà d’animo che ha dentro. Ma qui le principesse erano quattro e volevano solo conquistarsi un piccolo posto nel mondo: come? Nell’unico modo possibile per una donna senza possibilità: fingendo di essere un uomo. E infine, certamente, non era un film con il quale debuttare alla regia: lasciando l’ambientazione anni 80 si trattava comunque di una commedia sociale in costume, d’azione e di indagine. Era necessario fare tesoro di altre esperienze per affrontare quella che, per me, è la storia perfetta per raccontare, con la giusta distanza, che la condizione della donna oggi non è cambiata o, almeno, non è cambiata abbastanza da poterci ritenere fuori dagli schemi di una società che ancora ci giudica, ci tratta e ci considera cittadine di serie B, e che per tutto questo, c’è ancora bisogno di farsi sentire.
Michela Andreozzi