Note di regia di "Un Salto Ancora - One More Jump"
Il parkour è la disciplina e l’arte di superare ogni tipo di ostacolo attraverso la corsa, i salti o l’uso di movimenti acrobatici; è evidente che c’è un collegamento simbolico molto forte tra il parkour e la realtà che le persone affrontano ogni giorno nella Striscia di Gaza, rinchiusi come sono dentro alti muri, in una stretta striscia di terra presa tra il mare e lo stato di Israele, e dove i check-point, i posti di controllo sui pochi valichi disponibili, sono chiusi per la maggior parte del tempo. Questo sport rappresenta una metafora crudele e ironica della vita stessa nella Striscia.
A Gaza infatti gli ostacoli e le barriere sono ovunque e superare ostacoli è parte della vita quotidiana per i giovani ragazzi della Striscia sin da quando sono nati. I ragazzi del Gaza Parkour Team appartengono alla quarta generazione di palestinesi ad essere cresciuta imprigionata in una terra devastata da una guerra senza fine e dall’occupazione israeliana; ci mettono dentro i desideri e le frustrazioni di tutte le generazioni che li hanno preceduti. Per loro sfidare il pericolo con salti ogni giorno più alti rappresenta il modo di riappropriarsi della terra in cui sono stati relegati, recuperare la libertà che da sempre è stata loro negata e mantenere viva la speranza in un futuro migliore.
Vorrei usare il parkour come una metafora visiva della condizione in cui questi ragazzi vivono; si cimentano ogni giorno in acrobazie sempre più pericolose, sfidando in maniera simbolica le barriere della realtà in cui sono nati, ma per quanto insistano, falliscano, riprovino o riescano ad eseguire un’evoluzione, quel muro che li separa dal mondo esterno, è sempre là, invalicabile. Eppure nel momento in cui volano sospesi in aria, grazie alla padronanza dei movimenti del loro corpo, la realtà scompare e, anche solo se per pochi attimi, riescono a sentirsi finalmente liberi.
Nel film voglio concentrare l’attenzione e raccontare le due diverse e opposte prospettive che ci sono tra Jehad a Gaza, e Abdallah in Italia; i loro destini sono profondamente intrecciati e nonostante la distanza, questi due mondi e le loro storie che corrono in parallelo, si riflettono l’una nell’altra, come di fronte ad uno specchio.
Jehad e con lui gli altri ragazzi di Gaza, sognano di avere la loro grande opportunità per potersene finalmente andare dalla Striscia e divenire degli uomini liberi; sono fisicamente molto ben allenati ma non sono minimamente preparati per il grande salto verso un’altra vita fuori da Gaza. Non conoscono e non hanno mai visto nulla del mondo al di fuori dei quarantadue chilometri della Striscia.
Abdallah ha già compiuto il salto verso la “terra promessa” e oggi sa bene che vivere in Europa porta con sé un pesante prezzo da pagare; si è scontrato contro la realtà di vivere come un rifugiato in una terra straniera e quello che sente più di tutto è di aver perso tutto ciò che per lui contava, la sua famiglia, i suoi amici, la sua cultura, in definitiva il senso di appartenenza.
Mi hanno sempre affascinato le diverse forme che possono assumere i legami tra le persone, le storie di coloro che cercano di ridefinire la propria identità e, con tenacia, lottano per cambiare il proprio destino, disposti a sfidare i rischi che questo comporta; anche il mio film precedente, raccontava di un forte legame e della ricerca del senso della propria identità, anche se in quel caso, all’interno della mia famiglia.
Ho trascorso del tempo con Abdallah nel casolare in cui abita a Firenze, sulle colline mentre raccoglieva le olive o rincorrendolo per le strade della città durante i suoi allenamenti. Sono stato a Gaza assieme a Jehad e agli altri ragazzi della squadra, mi hanno mostrato la realtà della Striscia e delle difficoltà che affrontano ogni giorno.
Sono rimasto molto colpito dal vincolo di fratellanza di questi ragazzi e dalla loro caparbietà nel voler riscrivere il loro futuro.
Questa storia, il loro legame e la loro volontà, sono gli elementi che mi ricordano immediatamente perché amo essere un filmmaker.
Al di là del parkour, vorrei mostrare le sfaccettature che compongono le diverse personalità di questi ragazzi; per esempio, Abdallah che cerca di trovare un lavoro, Jehad che si occupa del padre malato o Nidal che desidera sposarsi e fare una famiglia. Questo tipo di sguardo si inserirà nella realtà per riportare e trasmettere le emozioni di questi ragazzi attraverso i momenti della loro vita quotidiana.
Nel film verrà utilizzato anche del materiale girato dagli stessi ragazzi della squadra che durante gli anni passati, hanno filmato moltissime ore di allenamento. Vorrei usare queste immagini come dei flashback nella mente dei personaggi, che portano alla loro memoria alcuni ricordi del loro passato e del loro legame, quando Abdallah non era ancora fuggito ed erano tutti insieme a Gaza.
Non è mia intenzione fare un film “politico”, ma la guerra e l’occupazione israeliana permeano a tal punto la vita di Gaza e dei palestinesi che vivono all’estero, che questi elementi saranno costantemente presenti, sullo sfondo. La guerra sarà mostrata chiaramente attraverso le immagini dei luoghi in cui vivono e si allenano i ragazzi a Gaza. Le case crivellate di colpi, gli edifici logori e semidistrutti, le insegne dei soldati e martiri di Hamas che si vedono ad ogni incrocio, ed infine, il muro che come un enorme recinto, separa Gaza e la sua gente dal resto del mondo.
La situazione di tensione e di minaccia, si percepirà attraverso il rumore dei droni israeliani nel cielo che attira l’attenzione e mette immediatamente in allerta gli abitanti di Gaza, timorosi di una nuova esplosione della violenza e dell’inizio dei bombardamenti.
Attraverso tutti questi elementi il film renderà palpabile la tragedia dell’assedio soffocante e della guerra costante e onnipresente che la popolazione palestinese vive sulla propria pelle ogni giorno, da sempre.
Contemporaneamente voglio far emergere e raccontare altri aspetti della questione israeliano-palestinese, aspetti che ho compreso solo dopo aver trascorso del tempo assieme a Jehad a Gaza e ad Abdallah in Italia, conseguenze forse meno visibili ma altrettanto drammatiche della situazione.
In primo luogo, la disperazione e la frustrazione che caratterizza le giovani generazioni di ragazzi che vivono nella Striscia; una disperazione tale, che l’unica strada che questi ragazzi hanno trovato per sognare e lottare per un futuro differente da quello a cui sono stati condannati, è praticare una disciplina che mette costantemente in pericolo le loro vite.
In secondo luogo, le difficoltà a lungo termine che i palestinesi devono affrontare per cercare di integrarsi in una comunità differente; per tutta la loro vita, fino al momento della fuga in un altro paese, è stata loro preclusa ogni esperienza al di fuori della Striscia, delle loro famiglie e del loro angusto territorio; sono cresciuti all’interno di una cultura dell’assedio basata sulla resistenza e la diffidenza; senza speranza nel futuro e imprigionati in un ambiente in cui, a causa della quasi totale assenza di lavoro, si sopravvive solamente grazie alle rimesse dei parenti che sono all’estero e agli aiuti delle Nazioni Unite.
Tutti questi fattori creano un ostacolo enorme in coloro che sono riusciti a lasciare la Striscia e provano a costruirsi una nuova vita in Europa; un ostacolo che solo pochi di loro riescono a superare; nel caso di Abdallah, questo rappresenta l’ostacolo più grande che abbia mai affrontato, più grande di tutti quelli che è abituato a superare facendo parkour.
Questi aspetti insidiosi causati dall’occupazione israeliana, si legano più generale alla questione dell’immigrazione massiva che in questi anni avviene da vari paesi del mondo verso l’Europa e verso gli altri paesi “ricchi”. Con questo film e attraverso le storie di Abdallah e Jehad, vorrei porre delle domande e investigare su cosa significhi libertà, quale sia il rischio che molte persone corrono, lasciando tutto, per cercare di raggiungerla e, quale sia il prezzo che spesso si deve pagare per ottenerla; perché lasciare la propria terra è solo un piccolo passo verso la libertà e non sempre, quello che immaginavamo essere libertà, può colmare il vuoto di tutto ciò che ci siamo lasciati alle spalle.
Manu Gerosa