DANILO MONTE - Un racconto in posizione scomoda
Da cosa nasce l'esigenza di questo film, così personale e intimo?
NEL MONDO è il capitolo “conclusivo” di una trilogia sui rapporti familiari a cui sto lavorando da qualche anno.
Ho realizzato prima MEMORIE, in viaggio verso Auschwitz, nel tentativo di riprendere un dialogo che si era interrotto con mio fratello Roberto, poi VITA NOVA, per raccontare il primo tentativo di fecondazione assistita vissuto insieme a mia moglie Laura, e infine NEL MONDO che parla del primo anno di vita di nostro figlio Alessandro e della scomparsa prematura di mio fratello Tullio. In tutti e tre questi film avevo l’esigenza di vivere attraverso il cinema e di fare cinema vivendo nella convinzione che l’autenticità con cui si mostra un momento delicato della propria vita possa innescare un processo di trasformazione che arrivi fino allo spettatore. Ho utilizzato la telecamera come lente di ingrandimento e come scudo protettivo rispetto a ciò che mi accadeva e questi percorsi umani sono diventati film che, partendo da storie personali, arrivano sul grande schermo con l’ambizione di diventare universali. Quella di fare un cinema intimo e personale è un esigenza molto naturale che proviene dagli insegnamenti di Alberto Grifi, maestro del cinema sperimentale, con cui ho avuto la fortuna di lavorare. Alberto ha sempre sottolineato quanto il processo che porta alla realizzazione di un film, ciò che si mette in moto mentre lo si fa, fosse qualcosa di potenzialmente rivoluzionario su cui mettere molta attenzione. In questo ultimo capitolo, mentre stavo per diventare padre, ho avuto la naturale esigenza di vivere questa esperienza all’interno di un percorso anche cinematografico per farla diventare qualcosa su cui ragionare insieme ad altre persone.
Il tuo cinema va in direzione di un diario intimo: già nei tuoi precedenti film hai messo in scena i tuoi rapporti familiari, con tuo fratello prima e con tua moglie poi, ora con tuo figlio. La tua forma di comunicazione con lo spettatore è molto "diretta", ti sei interrogato su questo girando Nel mondo?
La mia forma di comunicazione è molto diretta perché credo fortemente nel potenziale di trasformazione sociale che il cinema possiede, sia mentre lo fai sia per chi lo guarda sullo schermo. Nel fare cinema mi metto in una posizione scomoda e voglio che gli spettatori condividano questa posizione, per rendere l’esperienza di visione un'occasione di comprensione e di consapevolezza di se stessi. Se questa fiducia nella funzione pedagogica e terapeutica del cinema è stata portata all’estremo nei miei film precedenti, senza fare sconti né a me né agli spettatori, in NEL MONDO devo dire che ha trovato un maggiore equilibrio in una forma più rarefatta e con qualche concessione nei confronti di emozioni riconcilianti. Questo credo sia successo perché col passare del tempo si è trasformato anche il mio approccio nei confronti dell’esperienza del filmare, mi sono reso conto recentemente che in tutti i miei lavori ho avuto la fortuna di vivere alcuni brevissimi “momenti di verità” che mi hanno colto e travolto mentre facevo le riprese, sono attimi in cui in pochi secondi riesci a cogliere l’essenza di quello che stai filmando e ti senti straordinariamente vivo. Quasi sempre è accaduto quando per fortuna o per caparbietà, a seconda del momento, sono riuscito a tralasciare le sovrastrutture mentali che spesso mi assillano per godere della meraviglia e dell’unicità del momento che stavo vivendo, sono pochi secondi che arrivano inaspettati e in questo momento della mia esistenza vivo nell’attesa di esserne travolto nuovamente.
In un film come questo quanto è stato complesso girare e quanto hai girato? Eri sempre con la videocamera in mano?
Sulla carta NEL MONDO potrebbe apparire come un film facile da realizzare, hai il protagonista a portata di mano e lo giri a casa tua, ma devo dire che facile non lo è stato per niente. Ho girato una quarantina di ore in un anno e la difficoltà maggiore che ho avuto è stata quella di decidere quando iniziare a registrare e quando smettere. Le trasformazioni che si susseguono in un bimbo appena nato e in una famiglia che lo deve allevare sono tantissime e ho vissuto per un anno con l’ossessione di “perdermi qualcosa”. Inoltre, giorno dopo giorno e diventato sempre più difficile se non impossibile fare le riprese, nel senso che la genitorialità è talmente un'esperienza totalizzante da ridurre al minimo lo spazio fisico e mentale per qualsiasi altra attività. Non pensavo che sarebbe stato tutto cosi intenso e che avrebbe messo alla prova me e la tenuta della mia relazione con Laura ma è successo e ho dovuto il qualche modo affrontarlo. Questo ha sicuramente giovato al film perché le conflittualità che emergono danno spessore e verità al racconto, ma mentre avvenivano hanno rischiato davvero di compromettere un po’ tutto.
Come ti sei diviso tra il ruolo di padre e quello di regista?
Nei mesi in cui contemporaneamente imparavo a fare il padre e giravo il film si è creato un cortocircuito sia mentale che fisico, avevo sottovalutato il fatto che mentre ero impegnato a cambiare un pannolino sarebbe stato molto difficile fare le riprese. Non solo, quello che più mi ha mandato in confusione era il fatto che, giustamente, mio figlio non parlava e nei miei appostamenti da birdwatcher in cui attendevo che qualcosa accadesse, il suo silenzio mi consentiva di pensare al film, all’inquadratura, a quello che ci sarebbe voluto e a quello che mancava. Un pensiero altamente deleterio per il tipo di cinema che faccio in quanto venivano compromesse la spontaneità e l’autenticità di quello che stavo vivendo. Quando poi Alessandro ha iniziato a gattonare è diventato quasi impossibile riprenderlo perché dovevo stare attento al fatto che non si facesse male e in quel momento ho pensato che il progetto non avesse senso di esistere, che era già esageratamente difficile fare il genitore figuriamoci fare contemporaneamente anche un film. Nello stesso momento la presa di coscienza dell’impossibilità di fare un film sulla genitorialità definiva esattamente cosa volesse dire diventare padre, potrei descriverlo come un cambio di era geologica: prima sei figlio e vieni accudito o alla peggio hai la libertà di pensare solo a te stesso, poi diventi padre e devi accudire e hai la responsabilità della vita di un altro essere vivente. Quando poi è sopraggiunta la morte di mio fratello per due mesi non ho fatto più niente con la seria intenzione di sospendere il progetto e di fermarmi per ragionare e metabolizzare quanto stava accadendo. Poi, pian piano, anche grazie alla gioia che mi dava vivere con mio figlio e mia moglie sono riuscito a portare a termine il film e ora che è passato un po' di tempo dalle riprese trovo straordinario aver fissato per sempre quel periodo cosi pieno di contraddizioni e di difficoltà. Vivere nello stesso anno una nascita e una morte è stato molto difficile ma ha anche instillato in me una nuova consapevolezza rispetto al valore di essere vivi e di sentire.
5) Il film è totalmente autoprodotto?
Il progetto è stato sviluppato all’interno del workshop In progress 2017 di Milano Film Network, ha successivamente ricevuto il sostegno allo sviluppo della Film Commission Torino Piemonte ed è stato selezionato per il Match Making di Italian Doc Screening nel 2018. Nel periodo che va dal 2017 a oggi nessun produttore ha creduto nel progetto e quindi ho dovuto con caparbietà portarlo a termine quasi da solo. Sono molto contento del risultato anche perché, un po’ in controtendenza rispetto ai film precedenti, mi sono avvalso di figure professionali di primo piano per la fase di scrittura, di montaggio, di sound design e di colonna sonora. In fase di scrittura, ho lavorato con lo sceneggiatore Alessandro Aniballi (A pugni chiusi di Pierpaolo De Santis, 2016, Imma di Pasquale Marino, 2017, Il Commissario Rex, 2 eps, di Manetti Bros., 2015), mentre in fase di post-produzione ho coinvolto il montatore Johannes Hiroshi Nakajima (Menocchio, 2018, Genitori, 2015 e Tir, 2013, di Alberto Fasulo, L'accabadora di Enrico Pau, 2015), e il sound designer Simonluca Laitempergher (Il varco di Federico Ferrone e Michele Manzolini, 2019, Solo cose belle di Kristian Gianfreda, 2019, Storie del dormiveglia di Luca Magi, 2018).
La colonna sonora invece è stata curata dalla band piemontese Giulia’s Mother, il loro album di debutto, Truth, è stato definito dalla rivista Rumore: “un gioiello simile a un manufatto senza tempo”. Il buon esito della lavorazione e la felicità per la selezione nel concorso internazionale di FILMMAKER FESTIVAL 2019 sono stati possibili grazie al prezioso lavoro della produttrice Laura D'Amore, nonché moglie e madre del protagonista del film, nostro figlio Alessandro.
18/11/2019, 18:55