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A SUD DELLA MUSICA - Il 19 febbraio per il
ciclo di incontri-proiezione CINEAAMOD,


A SUD DELLA MUSICA - Il 19 febbraio per il ciclo di incontri-proiezione CINEAAMOD,
Parte con un omaggio alla musica popolare italiana, ed in particolare alla vita ed opera di Giovanna Marini, il ciclo di incontri-proiezione CINEAAMOD, rassegna che vede coinvolto l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico nella produzione, co-produzione o collaborazione di significative opere. Mercoledì 19 febbraio 2020 alle ore 18:00 nella Sala Zavattini dell’AAMOD di Roma verrà proiettato A SUD DELLA MUSICA di Giandomenico Curi, un viaggio spirituale e simbolico nella ricerca musicale etno-antropologica salentina che la massima esponente della musica popolare italiana compie cinquant’anni or sono alle radici di un percorso che la porterà ad incrociare suoni, tradizioni ed autori folgorati da una comune consonanza di intuizioni interpretative.

Un documentario, arricchito da preziose testimonianze ed immagini di repertorio dell’archivio AAMOD, in cui ad accompagnare l’artista e la donna sono un impegno sociale mai abbandonato e un grande senso della libertà filtrato dalla guida di un intellettuale straordinario come Pasolini che si trovava proprio in Salento pochi giorni prima della morte. La cultura orale e il canto folkloristico, mischiate ai ricordi di amici e studiosi (da Sandro Portelli a Ignazio Macchiarella, da Vincenzo Santoro a Luigi Chiriatti, da Gianfranco Salvatore a Brizio Montinaro e Silvano Palamà), rappresentano il fil rouge di un’opera che, unita ai luoghi ritrovati, alle facce e alle immagini di repertorio, ricompone insieme i suoi massimi esponenti, tra cui il Canzoniere Grecanico Salentino, i Ghetonìa, Enza Pagliara e Dario Muci, Rocco De Santis, Bucci Caldadarulo, Antonio Infantino, gli Arditi del Coro, Luigi Lezzi, Piero Brega, Gianni Nebbiosi e molti altri. Un film sul Viaggio, sulla Musica, sulle Donne, sul Meridione, sulla Lotta, sulla Libertà. Alla proiezione, e all'incontro a seguire, parteciperanno Giandomenico Curi e Brizio Montinaro.

Giovanna Marini scende in Salento, tra il 1969 e il 1971, perché le hanno detto, racconta, che lì sanno cantare bene, e perché questo prevedevano sia la sua militanza all’interno del Nuovo Canzoniere Italiano che la “religione del registratore” di Gianni Bosio. E tuttavia la sua ricerca è diversa da tutte le altre effettuate in Salento. Giovanna non è un’etnomusicologa, non è un’antropologa. E’ solo una musicista e una donna. E in questa ricerca la guidano il suo istinto, la sua passione per la musica e la voglia di innamorarsi di quella terra, del Sud, di quei canti di tradizione. Per lei la musica è prima di tutto libertà; e il suo è un gesto diretto. Scende in Salento per capire come funziona il canto contadino (soprattutto la sua diversità, la sua alterità), per imparare, per registrare quei canti, trascriverli, studiarli, e poi ricantarli a modo suo, farli conoscere a quanti non hanno la minima idea di quel modo straordinario e antichissimo di cantare e di comunicare. Più tardi dirà che quei viaggi non erano viaggi di ricerca, ma di vera e propria testimonianza. Testimoniavano (e testimoniano) l’importanza di quella cultura, e insieme il suo amore per il Sud, per la gente del Sud. «Quando Giovanna tornò dal Salento, - ricorda Alessandro Portelli – scrisse un articolo per il bollettino del circolo Gianni Bosio, I giorni cantati, che cominciava: “Prima cercavo i suoni, adesso cerco le persone”. E’ stato il Salento a farle capire a fondo che i suoni hanno senso perché appartengono alle persone, e che l’identità, che le persone esprimono attraverso i suoni – la voce, il fiato, il rapporto del suono col corpo». Un concetto, questo, molto vicino a quello espresso da Pasolini a proposito del friulano e del suo patrimonio popolare e musicale, quando parlava di una lingua dei contadini, dei montanari, di una lingua buona per chiedere da mangiare, da bere, per chiedere di fare l’amore, di cantare, di lavorare. Anche se non era la sua lingua, e tuttavia parlata e cantata «da coloro che egli amava con dolcezza e violenza».

Pasolini è un riferimento costante nell’opera di Giovanna. Anche per quanto riguarda il Sud. Un Sud, quello del regista friulano, vivo e profondamente contraddittorio, un Sud inteso come grande periferia, un universo a parte, geografico, di classe, destinato alla fine a resistere, “perché i suoi valori sono superiori a quelli della borghesia”. Perché la sua storia è un’altra, fuori da quella nazionale, una “nazione nella nazione”, come dirà nelle Ceneri di Gramsci, una nazione di «analfabeti in possesso del mistero della vita».

Un Sud che Giovanna riporta in vita, ricantandolo a modo suo, su uno dei treni diretti a Reggio Calabria, nel 1972, insieme a una folla bellissima e unica di operai, contadini, emigranti, vecchi e giovani, uomini e donne, ognuno con le sue canzoni e le sue storie. Un treno che diventerà I treni per Reggio Calabria, ballata nuovissima, perfetta, urbana: un racconto epico e poetico, su un ritmo che tira come un treno, e “le parole che si incollano alla musica scivolandoci dentro senza sforzo”. Un brano che Pasolini, prima di morire, ha ascoltato, e amato.

Ma il Salento è anche avamposto dell’Oriente, da sempre luogo di fascino e di incontro fra le parole e la musica . Il Salento di Alan Lomax e Bosio, di Carpitella, delle sorelle Chiriacò e della Simpatichina, di De Martino e Rina Durante, il Salento che sposta definitivamente lo sguardo e il cuore di Giovanna Marini dal Conservatorio all’universo del mondo popolare. «In quei giorni – scrive – registro canti che poi riproporrò in giro per più di 30 anni, che tutti i miei allievi conoscono e che sono stati fondamentali, per me, sia per costruire i concerti che facevo in giro per l’Italia sia per scoprire quali erano i modi del canto di tradizione orale… Canti che mi hanno accompagnato per una vita intera».

Canti che accompagnano anche il film dall’inizio alla fine, che si mischiano ai ricordi, alle testimonianze di amici e studiosi (da Sandro Portelli a Ignazio Macchiarella, da Vincenzo Santoro a Luigi Chiriatti, da Gianfranco Salvatore a Brizio Montinaro e Silvano Palamà), ai luoghi ritrovati, alle facce e alle immagini dei materiali di repertorio, soprattutto AAMOD, si mischiano ai musicisti e ai cantanti, vecchi e nuovi, più vicini alla cultura orale e al canto di tradizione: il Canzoniere Grecanico Salentino, i Ghetonìa, Enza Pagliara e Dario Muci, Rocco De Santis, Bucci Caldadarulo, Antonio Infantino, gli Arditi del Coro, Luigi Lezzi, Piero Brega, Gianni Nebbiosi e altri.

Ma è Con Pasolini che il film alla fine si chiude. Quando il nostro viaggio incrocia un film di Cecilia Mangini, Stendalì, che mette in scena i canti di morte in lingua grika, con un testo italiano completamente riscritto dal poeta friulano sul finire degli anni ’50. Un lamento che racconta lo strazio di una madre per la perdita del figlio, dove c’è dentro anche il pianto della madre Susanna e la morte del fratello Guido. E in qualche modo c’è anche la sua morte. La morte di Pasolini vicino al mare di Ostia, vissuta come una perdita assoluta e incolmabile. E’ il 2 novembre 1975. E appena 10 giorni prima, il 21 ottobre, Pasolini era tornato in Salento, a Calimera, ad ascoltare ancora quei canti d’amore e di morte in lingua grika. E’ la chiusura del cerchio, sancita dal Lamento per la morte di Pasolini, scritto da Giovanna mettendo insieme il modulo di una passione contadina abruzzese, ma anche lo svolo dei lamenti funebri salentini. E quindi è ancora il Salento che ritorna.

07/02/2020, 18:48