Note di regia di "Come Se Niente Fosse"
Dietro alla realizzazione di questo progetto è proliferato un groviglio di istanze e motivazioni che, a più riprese, si sono fra loro scontrate, condizionate e suggellate. Di conseguenza, il mio rapporto con questo lavoro – e prima di tutto con le persone conosciute grazie a esso – ha costituito per me l’unica vera linea guida durante la sua creazione.
Come già emerse fin dal primo incontro con l’ex-locale Al’Trove a alcuni dei suoi abitanti, era e tuttora mi è difficile definire in un sol colpo la funzione di questa struttura fatiscente: per alcuni costituiva un rifugio di fortuna, un posto al coperto dove trascorrere la notte per mancanza di
alternative abitative, fosse questa mancanza dovuta all'impossibilità giuridica di accedere a un alloggio o fosse dipesa da un imprevisto momento di difficoltà; per altri invece rappresentava una vera e propria dimora di cui implementare sempre più accuratamente l'abitabilità; altri ancora infine lo vivevano come semplice luogo di ritrovo.
A guidarmi verso l'ex-locale vi era però anche qualcos’altro oltre lo stimolo della ricerca – qualcosa di più profondo e intimo – di cui mi sarei reso conto solamente più tardi, nel corso dei dieci mesi in cui avrei frequentato quelle persone all’interno e al di fuori dell’Al’Trove.
Non si è sempre trattato di una frequentazione regolare e continua. Sono molti e molte coloro che ho incontrato in quel locale: con alcuni ci siamo conosciuti, con altri non siamo andati oltre la stretta di mano.
Quel che mi è capitato non è stato infatti di rapportarmi con una comunità, bensì con più singolarità.
Per quanto i fruitori del locale avessero dei vissuti talvolta anche simili fra loro, o per quanto potessero essersi persino intrecciati in passato, l’auto-rappresentazione che emergeva dai loro discorsi non veniva mai declinata al plurale. Vi era ovviamente la consapevolezza di star vivendo una situazione corale, ma la si limitava sempre all’immanenza del momento, di quel “qui e ora” che si protraeva nel tempo, fosse anche solo per qualche giorno, per più settimane o per mesi. Il passato e il futuro rimanevano una questione privata. Non taciuta od oscurata, anzi. La si condivideva e talvolta la si decantava pure, ma l’impressione che avevo era sempre quella di ascoltare storie individuali, giunte fin qua lungo file di binari sui quali erano pronte a ripartire. Non ho mai considerato l’Al’Trove un luogo di scambi, bensì un qualcosa di più simile a una rimessa ferroviaria, dove i singoli individui – così come i treni – sostano rimanendo sulle proprie rispettive
rotaie: vicini e affiancati, ma pur sempre distaccati e isolati nei solchi dei loro percorsi di vita. Per tutta la conduzione del lavoro, e in special modo durante il montaggio, il mio obiettivo rimaneva sempre lo stesso: evitare di concettualizzare l’Altro così da scongiurare il rischio di deumanizzarlo. Come ho scritto all’inizio, la realtà che andavo via via a scrutare con questo progetto mi ha ripetutamente posto nella posizione di riflettere sui metodi che adottavo, per rivederli e accordarli all’evolversi delle situazioni e delle relazioni che tessevo.
Più volte mi sono interrogato sull’opportunità di quello che stavo facendo, ma soprattutto su quanto inconsapevolmente, man mano che la ricerca proseguiva, stessi lavorando a contatto con alcune delle mie più profonde emozioni. L’interesse per questa forma di isolamento “non isolato” rifletteva la volontà di esplorare un profondo senso di solitudine che avvertivo e tuttora avverto dentro di me.
Filippo Maria Gori