Note di regia di "The Shift"
Ricordo come fosse ieri la mattina del 14 novembre 2015 quando, guidando per le strade di Torino diretto a lavoro, cominciai a riflettere con lucidità su quanto avvenuto la notte precedente a Parigi. Ero confuso. Nella mia testa rimbalzavano mille pensieri, mille domande cui non riuscivo a dare risposta. Ricordo che pioveva. I tergicristalli dell’auto si muovevano in un ritmo perfetto con Hunger of the pine, la canzone degli Alt-J. Guidavo piano, ricordo, perché la pioggia copriva la visuale e perché ero davvero scosso. Mi sentivo disarmato, vulnerabile, fragile. In quei momenti la nostra ragione vacilla, è come se si fosse senza difese, perché non si sa esattamente da dove possa arrivare la violenza. E se fosse capitato a me? E se fossi stato tra le vittime, cosa avrebbe provato la mia famiglia?
Non so perché, ma pensai a mio padre, che è un uomo taciturno, ma che quella mattina aveva commentato il massacro con un fiume di parole delicatissime, piene di dolore, mentre io rimanevo zitto bevendo il caffè insieme a lui in cucina. Mio padre è un volontario della Croce Rossa Italiana, guida l’ambulanza. E chissà come si sarebbe comportato lui se fosse dovuto intervenire sul luogo del disastro. Chissà cosa avrebbe provato, se tra quelle vittime avesse riconosciuto suo figlio. Gli attentati terroristici di matrice islamica susseguitisi nel tempo in Francia, in Belgio e nel resto del mondo, mi hanno spinto inoltre a interrogarmi sul perché di tali gesti e a sforzarmi di capire da dove venisse questa rabbia. Mi sono accorto che spesso, tralasciando le pure motivazioni storiche ed economiche, il fondamentalismo mette radici nel disagio sociale e che sempre più frequentemente trova terreno fertile tra gli adolescenti. Così è nato The Shift. Non un film che abbia la pretesa di dare delle risposte su un argomento così ampio e delicato, bensì una storia che affronta il tema osservandolo da vicino, guardando dritto negli occhi di un giovane perso in un percorso folle e di una donna attaccata alla vita che proverà con tutti i suoi mezzi a farlo ragionare, a ricordargli chi è, da dove viene e soprattutto dove rischia di andare. Ho pensato che fosse fondamentale concentrare l’attenzione sull’evoluzione dei personaggi, della loro psicologia; sulla fragilità di Eden e sulla sua paura di morire. Quella stessa paura che lo porta a essere imprevedibile e pericoloso.
Tutto questo, in termini drammaturgici e cinematografici, si traduce in un racconto ricco di tensione psicologica, dal ritmo serrato e compresso in un arco narrativo ristretto, dove il tempo reale e quello della storia coincidono. Sono molto soddisfatto del lavoro svolto insieme a Davide Orsini. Federico Sperindei, l’editor, ha contribuito poi con grande impegno ad epurare la sceneggiatura dai suoi difetti. La storia è diventata più diretta, permettendo di raggiungere una maggiore profondità narrativa all’interno delle singole scene. I personaggi sono stati disegnati in maniera nitida approdando a un’efficace complementarità lungo la gamma di emozioni che la vicenda narrata scatena in loro. Sono convinto però che, ancor più degli aspetti narrativi, formali ed estetici, gran parte del lavoro è affidato alla recitazione. Ho diretto gli attori verso un’interpretazione naturalistica, al limite tra realtà e finzione, e sono loro ad accompagnare, senza dare giudizi, lo spettatore verso una riflessione profonda su quale sia il limite della compassione e dell’empatia verso chi ha sbagliato in modo così grave. Per questo insieme ai produttori di Notorious e Tarantula abbiamo puntato ad un cast principale di livello e svolgendo una ricerca meticolosa del ragazzo che interpreta Eden. Ritengo sia importante spingere la ricerca verso un “non attore” per mantenere la freschezza dell’interpretazione e per trovare la verità nel suo volto e nel suo carattere. È un film che si presta ad essere raccontato con uno stile fresco, ricco di respiro, quasi documentaristico. La macchina da presa “pedinerà” i personaggi, sarà spettatrice a sua volta e farà̀ in modo che il pubblico viva la loro stessa tensione. Già dalla prima sequenza siamo immersi in uno scenario crudo ed iperrealistico, come se noi stessi fossimo vittime della strage. L’accelerazione del ritmo, la tensione psicologica altissima ed esasperante all’interno dell’ambulanza conferiranno poi al film una collocazione di genere a metà tra il thriller e il dramma psicologico. Il dialogo aperto e produttivo con due figure di riferimento quali il Direttore della Fotografia Benoit Dervaux e lo scenografo Igor Gabriel sono un ulteriore fonte di ispirazione. La loro esperienza nel cinema d’autore, al fianco di cineasti del calibro di Jean-Pierre e Luc Dardenne e di Abel Ferrara, arricchirà il film di valori formali ed autoriali.
Oltre a essere un cameraman molto creativo e ingolare, Benoit possiede un’enorme sensibilità che si affianca a uno spiccato gusto per l’immagine. Ha tanta esperienza documentaristica oltre che cinematografica e questo aspetto si sposa alla perfezione con il lavoro e l’accuratezza di Igor. Insieme non abbiamo avuto timore di girare la maggior parte del film all’interno di una vera ambulanza, sfruttando i suoi spazi angusti per aumentare il senso di claustrofobia necessario alla storia e per aver la possibilità di stare a stretto contatto con i personaggi e con le loro emozioni. Buona parte del film è raccontata attraverso i vetri dell’ambulanza, sui quali ho valorizzato la città, sfruttando riflessi, colori e forme. Benché la storia si prestasse ad essere raccontata in una qualsiasi capitale europea, non ho indugiato a scegliere Bruxelles, non solo perché il Belgio è sicuramente uno dei paesi più feriti e sensibili sull’argomento, e nel quale è giusto raccontare una storia che si fonda su un atto di eroismo, ma anche e soprattutto perché Bruxelles trascende la propria generica natura di metropoli e rappresenta, da un punto di vista istituzionale e nell’immaginario comune, un simbolo dell’intera Unione Europea. Ambientare il film a Bruxelles significa dunque ambientarlo in Europa prima ancora che in Belgio, sottolineando come i rischi della radicalizzazione e le opportunità dell’integrazione riguardino un intero continente chiamato a confrontarvisi in un modo per una volta coeso e coordinato.
Gli esterni sono naturali, reali, così come gran parte degli interni. Tuttavia, dei camera-car esterni mi hanno aiutato a valorizzare le sequenze adrenaliniche. Inoltre, l’utilizzo di espedienti pratico/tecnici quali interventi meccanici sull’ambulanza, o di attrezzature leggere, hanno regalato al film una scrittura per immagini originale. Un riferimento immediato è il piano sequenza della scena in automobile in I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, dove la chiave di svolta tecnica che il regista adotta per ottenere una narrazione incisiva ed efficace, mantenendo la focalizzazione sul “qui e ora”, è affidata a un rivoluzionario utilizzo della macchina da presa che si muove in un lungo piano sequenza all’interno dell’abitacolo a 360°. Mi sono affidato ad una fotografia livida, dai toni cromatici freddi e incisivi, prediligendo il più possibile la luce naturale e l’illuminazione reale dell’ambulanza. Gli effetti speciali visivi hanno integrato e arricchito le sequenze di azione realizzate con reali effetti meccanici e le recenti tecnologie mi hanno aiutato a trovare soluzioni visive originali per raccontare il dentro/fuori dall’ambulanza.
Credo che ogni film debba essere unico e rappresentativo ed è questo il motivo per cui non amo particolarmente fare paragoni con altri film. Tuttavia, ho attinto sia alla tradizione del cinema neorealista italiano che ai più recenti autori internazionali, quali Alejandro González Iñárritu (21 Grammi) e Kathryn Bigelow (The Hurt Locker), ed europei quali Michaël R. Roskam (Bullhead), Nicolas Boukhrief (Made in France) e Felix Van Groeningen (Alabama Monroe).
Il look del film vive di suggestioni che provengono dalla strada, dalla realtà̀ . Vorrei far percepire sulla pelle e sui vestiti dei personaggi l’afa, il sudore e la paura, adeguando la palette cromatica ai toni della scenografia circostante. Non è vero che l’abito non fa il monaco. Bruxelles è una gabbia che racchiude tipi umani diversi ma uguali tra loro. Ogni inseguimento, incidente o colluttazione deve risultare estremamente vera e naturale. A questo scopo è stato fondamentale trovare per ogni sequenza d’azione quella diversa chiave di lettura e quel diverso punto di vista che risulti spiazzante per lo spettatore. Ho voluto ribaltare la percezione dell’inaspettato creando un vero effetto di stupore. Un ruolo fondamentale è stato giocato anche dalla colonna sonora: suoni e rumori di una città sotto assedio terroristico, vanno a compensare ciò che gli occhi non possono vedere, aumentando così il senso di claustrofobia e di effetto “film nel film”. Le musiche minimali ma ricche di atmosfera dei Mokadelic confezionano minuziosamente il tutto. Sono consapevole che con il mio film non riuscirò a trovare una soluzione ai mali del mondo e in particolare al terrorismo, ma credo che il mio ruolo e il ruolo di tutti coloro che si avvicinano a una forma di espressione sia proprio quello di sollevare e stimolare alla riflessione. Allora, cosa possiamo fare per arginare tutto questo? Probabilmente basterebbe cominciare ad ascoltare e ad ascoltarci. Ad integrare, ad integrarci.
Alessandro Tonda