Note di regia di "Princesa"
Il desiderio del film nasce dall’incontro personale con Princesa e dalla volontà reciproca di lasciare una traccia, un segno della sua storia e della storia di molte altre donne nigeriane. L’ho conosciuta all’interno di una comunità di accoglienza per vittime di tratta a Cagliari, dopo essere fuggita dalla rete dei trafficanti che gestiscono in Italia il mercato della prostituzione e dello sfruttamento. Nei nostri incontri Princesa appare fugace, imprendibile e assorta in una ricerca che ci vede entrambe coinvolte. La camera è un mezzo di dialogo, uno sguardo bidirezionale che raccoglie frammenti di vita tra la sua realtà e il mio immaginario, usata come una penna per scrivere - la caméra stylo - che esplora un linguaggio filmico a metà tra il documentario e la ricerca visuale e che pratica una regia autoriale libera da scrittura e drammaturgia. L’utilizzo della pellicola super 8mm e 16mm mi ha aperto a una poetica nuova, a uno sguardo fuori dal tempo, alla leggerezza e flessibilità del filmare consentendomi di tracciare, una mappa visiva e sonora di una possibile storia - per quanto transitoria - intorno a Princesa. Costruendo un tessuto visivo e sonoro ibrido, il film deposita il suo punctum nelle immagini come oggetti complessi e luoghi del sentire, riportando elementi dalla realtà quando questa non si poteva filmare, rinvenendo le tracce di certe parole mai pronunciate, trasformando i sogni e la memoria in suoni. La necessità espressiva di utilizzare diversi registri narrativi e un materiale stratificato come il repertorio dei filmati d’archivio, la caméra-stylo e il documentario di osservazione risponde al tentativo di creare un ibrido cinematografico che contenga gli elementi e le suggestioni raccolte intorno a un fenomeno complesso e inesauribile. Nel 2018, durante le ricerche per il documentario, viene emanato un editto religioso di importanza epocale da parte del re Oba Ewuare II, capo spirituale e morale dell’Edo State. L’Oba annulla con i suoi poteri i giuramenti praticati dai sacerdoti tradizionali, liberando dal vincolo della maledizione del juju le vittime della tratta in Europa. Questo avvenimento sposta il mio sguardo su altri terreni, riportando l’immaginario al Mediterraneo e all’isola in cui vivo, terra di riti e credenze popolari e al contempo luogo di approdo di Princesa. Nel film tento di parlare di un luogo sconosciuto dello spirito, che ha diversi nomi e allo stesso tempo è impronunciabile. Un enigma che abita nell’animo, la lotta inconscia in cui si uniscono la sorte con il credo, la ragione con la fatalità, le leggende con le superstizioni. Il percorso visivo e sonoro del montaggio prende la forma di un testo scritto che si sviluppa senza una narrazione lineare, guidato dai quadri in cui Princesa si muove liberamente nello spazio di ripresa. L’azione della protagonista di fronte alla camera è un’affermazione di identità in mutamento, in quello che è stato nell’arco di produzione del film - ed è ancora nella vita reale - un cammino personale di autodeterminazione come donna, straniera, migrante, stretta dentro gli argini di uno stereotipo. La testimonianza dell’editto dell’Oba contenuta nella storia pone una domanda sul presente e sul futuro dell’esistenza della protagonista, e in questo interrogativo il film trova la propria dimensione politica e sociale.
Stefania Muresu