Festival del Cinema Città di Spello e dei Borghi Umbri
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Note di regia di "Sposa in Rosso"


Note di regia di
Sposa in Rosso è una “strana” storia d’amore, ma non solo.
Sposa in Rosso è anche una singolare truffa di una coppia di precari, e non solo.
Sposa in Rosso è anche la voglia di riscatto di una generazione, crearsi un’opportunità in una vita senza opportunità.
Sposa in Rosso è soprattutto una commedia romantica. Con una particolarità.
La vera storia d’amore inizia quando il film finisce.
Sposa in Rosso è una storia che avevo in testa da molto tempo anche perché tocca dei temi che mi sono cari. Già nel mio precedente film Tuttapposto (2019) mettevo in scena una ribellione dei figli verso le famiglie e i genitori, ma in quel caso i protagonisti erano giovani universitari. Stavolta sono andato un pò più in là con l'età cercando di raccontare una generazione, quella dei quarantenni, nei confronti dei quali spesso la vita si accanisce. Perché si tratta di una generazione che non ha tanti punti di riferimento, una generazione indefinita. Troppo vecchia per essere millennials, troppo giovane per essere x. Una generazione schiacciata da quella precedente, quella dei genitori, e divorata da quella successiva. Che ha faticato a trovare un posto nel mondo.
I due protagonisti, Roberta (Sarah Felberbaum) e Leòn (Eduardo Noriega), infatti si muovono in un’incertezza emotiva costante, annaspano in uno stato di precarietà non solo lavorativa ma esistenziale e non avendo ancora trovato una loro strada finiscono inevitabilmente per scontrarsi con la famiglia, con la tradizione, con le aspettative degli altri. Con un dover essere che non li rappresenta. Il fattore economico nel dipanarsi della storia è scatenante ma è quello identitario il più bruciante. Chi siamo. Chi avremmo voluto essere. Chi possiamo ancora diventare.
La traccia è semplice. Roberta, italiana a Malta con un figlio senza un lavoro e senza un progetto di vita, incontra per caso un giornalista spagnolo, Leòn, quarantenne precario come lei e lo convince a sposarla per finta per intascare i soldi delle “buste” che in Puglia gli invitati regalano agli sposi.
Roberta e Leòn si ritrovano così a dover recitare e costruire con fatica la loro intesa, la loro unione, il loro matrimonio anche se è finto. Durante la preparazione del matrimonio i due devono fingere di amarsi ma finiscono sempre per litigare, proprio perchè iniziano ad entrare in gioco i sentimenti veri. E in questa simulazione sta la cifra del loro rapporto di coppia che potrà solo alla fine evolvere in un confronto più sincero. Una sincerità a cui potranno giungere solo con le bugie.
Insomma questo “finto” matrimonio alla fine sarà la soluzione alle loro frustrazioni, alla loro ansia di realizzarsi, anche al timore della solitudine. Ma non sarà scontato trasformare una singolare truffa nella storia d'amore di una vita.
Roberta e Leòn insieme comprendono che a volte il realismo è sopravvalutato, che la finzione può essere la via per giungere a un’altra verità. Per entrambi e forse anche per il pubblico il senso del film sarà in questa scoperta.
La vicenda procede quindi con il gusto consapevole della finzione, delegando a una vorticosa galleria di “maschere” il ritratto contemporaneo di un paese congelato nell’eterna riproposizione degli stessi crismi. I personaggi che fanno da contorno alla storia si interfacciano in un gioco di specchi deformati in cui ciascuno vede ciò che vuole vedere. Il linguaggio narrativo adotta il codice di un continuo disvelamento, giocando con la rappresentazione e il camuffamento sia delle intenzioni che dei sentimenti. Funzione chiave è appunto quella della maschera.
Il film ha una forte impronta femminile, anche matriarcale. L’impatto dei due protagonisti con la famiglia pugliese di Roberta, i Caradonna, farà emergere questo aspetto. Un’asfissiante famiglia del sud, esagerata nei suoi affetti e nei suoi difetti, che darà tutto il colore che serve a un film di uomini sfuggenti, inadeguati e di donne al contrario dominanti e totalizzanti. Un ambiente in cui la maschera è lo scudo, sia di chi rimane a difendere la tradizione (Lucrezia e le tre zie) sia di chi cerca un’altra identità (zia Giada), un altro mondo, un’altra vita.
Una frase portante del film e “Litigare è il nostro modo di volerci bene”. Questo concetto io lo trovo fondamentale: dove c'è rumore c'è vita mentre il silenzio è morte, è disinteresse, è indifferenza. Roberta riavvicinandosi alla famiglia prende coscienza di sé e il suo nuovo ruolo di madre l'avvicina anche a Lucrezia che ha sempre tenuto distante.
In fondo in questo film non ci sono buoni o cattivi. Come diceva il maestro Monicelli: “Quando si racconta una storia i giudizi morali lasciateli al pubblico”.

Gianni Costantino