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Note di regia de "I Pionieri"


Note di regia de
C’è una fase, poco prima dell’adolescenza, in cui comincia a rompersi tutto. Le cose che ci sembravano normali di colpo perdono senso. Voci discordi si insinuano, la nostra personalità prende forma e preme, da dentro, facendoci cambiare direzione. È questo momento breve, di trasformazione, sospeso e anche un po’ magico, quello che ho cercato di captare e rappresentare ne I Pionieri. Sono partito dalla constatazione che nell’Italia della mia infanzia, ancora divisa tra le basi militari degli americani e il più grande Partito Comunista d’occidente, la politica esercitava sui legami familiari un impatto molto più forte rispetto ad oggi, quasi come il calcio, a volte eccessivo, quindi potenzialmente comico. E sono partito da un disagio personale: figlio di genitori comunisti, nato e cresciuto però nel momento storico sbagliato, gli scintillanti anni ’80, col comunismo in crisi e tutti gli ideali assorbiti da bambino che si facevano, anno dopo anno, sempre più inapplicabili. Il risultato: un precoce e mai risolto smarrimento politico. L’aspetto autobiografico, però, si ferma qui. Perché fin dall’inizio il mio obiettivo è stato quello di raccontare una storia universale: l’amicizia simbiotica tra due ragazzini e il modo con cui entra in crisi una volta che uno di loro rompe la bolla di certezze che li ha protetti fin dall’infanzia. Per Enrico e Renato questa bolla si chiama Partito Comunista Italiano, ma ogni spettatore potrà chiamarla in modo diverso, secondo il proprio vissuto. Ho sempre visto Enrico e Renato come due nerd, “infettati” dalla passione politica delle loro famiglie e fuori posto nel contesto in cui vivono: una provincia marginale della Sicilia che mi interessava tuttavia agganciare tematicamente a eventi storici molto più grandi, come la fine del comunismo e della Guerra Fredda. Le scelte di messa in scena hanno preso ispirazione dall’età dei protagonisti. Un’età di passaggio, dove sogni e realtà riescono ancora a mischiarsi. Sentivo che di fronte a loro la macchina da presa dovesse porsi a una distanza ironica ma complice, senza arrivare a nascondersi, ma trasmettendo nello spettatore la sensazione che quei ragazzini fossero stati lasciati veramente «soli» mentre tentano di ricostruire, in quel bosco, un mondo tutto loro. Durante le riprese mi sono sforzato di drizzare al massimo le antenne per captare dai miei quattro giovanissimi e straordinari attori i loro sbalzi emozionali, i loro silenzi e le loro maldestre esternazioni, facendo filtrare in ogni scena quanta più verità potessero offrire le loro singole personalità e il loro libero gioco di identificazione con i personaggi. Sentivo però che questa asciuttezza documentaristica avesse bisogno anche di un contraltare. Per questo ho voluto che convivesse con incursioni oniriche, lavorando a fondo perché ciò avvenisse senza traumi. È questo il cinema che amo, capace di registrare la verità di sguardi e palpiti, ma lasciando al tempo stesso la porta aperta ai sogni, siano essi assurdi, irrealizzabili o infranti.

Luca Scivoletto