Note di regia di "Anche il Riccio Respira"
Questo cortometraggio nasce come tesi per l’Istituto Europeo di Design; c’è stato quindi un momento, dettato dalle scadenze accademiche, in cui ho dovuto necessariamente raccogliere i miei pensieri e capire cosa e come volessi davvero raccontare. Una storia intima, delicata, sentita. Anche il riccio respira racconta della solitudine di Enea, e la rapporta al mondo che lo circonda. Un mondo fatto di ragazzi, dove gli adulti non sono presenti e quasi non se ne avverte la mancanza.
Ho voluto rappresentare la solitudine non come un sentimento negativo, ma come una diversa interpretazione del modo di vivere di una persona, ed è su questo aspetto che il mare, anch’esso personaggio e non ambiente del film, rivela il suo significato duale.
L’intera storia si sviluppa sul mare per una ragione principale: può rappresentare, come vediamo soprattutto nella prima sequenza del corto, due sentimenti opposti.
Da un lato la spensieratezza, il divertimento, l’estate; dall’altro la solitudine, la malinconia, il vuoto. Ed ecco come dei ragazzi in un momento importante per la loro vita, fatto di decisioni, dubbi, cambiamenti, possono stare nello stesso luogo e guardare lo stesso mare, provando sentimenti decisamente contrastanti. Il Voice Over ha ovviamente un ruolo fondamentale nell’economia della narrazione. Questo racconto di un ricordo lontano ci rapisce subito, e porta avanti una narrazione a sé stante rispetto alla storia che stiamo vedendo per immagini.
Le due procedono di pari passo, man mano che il corto procede, la storia e le sensazioni del Voice Over si rapportano sempre di più ad esso, e diventano sempre più chiare per lo spettatore, fino ad arrivare all’ultima scena in cui le due narrazioni si intrecciano in un luogo al di fuori dal tempo, fornendo allo spettatore una chiave di lettura per la storia e per il sentimento raccontato. La fotografia racconta un mondo fatto di colori tenui ma allo stesso tempo forti, quasi esagerati, per descrivere come un giovane può vedere il mondo e vivere le sensazioni in modo amplificato. La regia sottolinea questo aspetto ma non si impone mai, lascia il tempo e lo spazio ad Enea di raccontare le sue emozioni.
Ho cercato di sottolineare la sua solitudine ponendolo in paesaggi vasti con inquadrature larghe, per marcare il vuoto che lo circonda; e al contrario quando è circondato dalle persone e si sente a disagio, l’ho rinchiuso in un’inquadratura stretta, quasi fosse intrappolato e asfissiato da tutti. Alla fine il pensiero che lascia la storia non è interamente positivo, volutamente un po’ provocatorio: la solitudine può essere un modo di vivere e non si dovrebbe sentirsi in difetto per questo, piuttosto accettarlo, come fa Enea alla fine. Più che un messaggio delineato e finito e consegnato allo spettatore, vorrei che questo fosse un punto di partenza per una riflessione portata avanti dopo la visione, per capire che anche in sentimenti ed emozioni che ci sembrano stereotipati ed archetipici, c’è sempre spazio per una nuova interpretazione e rivalutazione.
Domenico Pietropaolo