Note di regia de "La Festa del Ritorno"
Era il 1972 e avevo dieci anni quando mio padre portò me e i miei fratelli, per la prima volta, a visitare la sua casa in Calabria, sulla costa ionica dove era nato e vissuto fino all'età di sedici anni. Era una realtà che sembrava tenerci nascosta, quasi una vergogna per lui che era riuscito a evadere dal paese, la urearsi e divenire un importante ingegnere progettista di ponti e strade in tutto il mondo. Nel suo intento, noi figli non dovevamo subire quella ristretta, retrograda, bigotta e invadente mentalità che avrebbe influenzato la nostra educazione e le nostre scelte di vita. Dovevamo crescere liberi da tutti quei condizionamenti; pensava che l'unico modo per evolverci, aprire gli occhi, trovare la nostra strada, sarebbe stato lo studio e la cultura. "Si vede quel che si sa" ripeteva sempre. E cos ì , io e i miei fratelli, siamo nati e cresciuti a Roma. Passavamo le vacanze alla casa al mare in Toscana, e potevamo scegliere di andare a scuola solo al liceo classico o allo scientifico. Mio padre acquistò anche una libreria nel centro della capitale, co nvinto che sarebbe stato uno stimolo irrefrenabile alla nostra cultura. La Calabria per lui rappresentava un luogo lontano da evitare; crescere li significava sottostare a tutte le sue leggi, reprimere tutte le ambizioni e probabilmente diventare ottusi o mafiosi. E cos ì , quando visitai per la prima volta il paese e la casa di mio padre rimasi colpito, affascinato e effettivamente spaventato allo stesso tempo. Mi apparve e mi appare tuttora un mondo che non mi appartiene, anche se rimango attratto come una calamita dal mistero che emanano le case, i vicoli, gli anziani contadini, l'immensa vallata che circonda il paese. Un mistero ancora vivo che si svela gradualmente, difficile da descrivere perché ha a che fare direttamente con gli elementi della natura c he ha insegnato e insegna ancora oggi agli abitanti del paese a vivere. Ho ancora un filmino in 8mm che girai in quei giorni: la grande casa di mio padre era ancora abitata da due anziane zie e da uno zio, Vincenzo, a cui mio padre, qualche anno prima, av eva regalato un televisore, ma non si poteva accendere, lo zio diceva che era molto pericoloso, inquinava l'aria. Nel filmino si vedono i muli carichi di legna che attraversano i vicoli, le donne vestite di nero instancabilmente affacciate alla finestra, e gli sfacciati ragazzini di appena dieci anni che sfrecciavano pericolosamente con i motorini per i vicoli. E poi ci siamo noi, vestiti alla moda, con i Jeans a zampa d'elefante e i capelli lunghi. Noi e loro, due realtà contrastanti che si attraggono. Da quel giorno più volte sono tornato nel corso degli anni al paese di mio padre, sempre armato di macchina fotografica e cinepresa. Una volta, mentre stavo facendo delle riprese nella piazza del paese, un ragazzo mio coetaneo mi urla da lontano in dialetto: "fammi la cortesia riprendi a me, portami a Roma”. Questo "Portami a Roma" mi è sempre riecheggiato. Io ragazzo fortunato che vive a Roma avrei avuto il potere con una cinepresa di portare tutti a Roma, e perché no? Sicuramente una sfida interessante per m e che sono sempre stato appassionato di fotografia, tanto da trasformare questa passione nel mio lavoro principale di direttore della fotografia. Un esperimento lo feci nel 2004, mio padre era venuto a mancare da dieci anni e mia madre mi chiese di realizz are un documentario sulla casa, e sul paese di mio padre, ormai in abbandono, per mantenerne viva la memoria. Con l'aiuto di amici e parenti raccogliemmo su un po’ di soldi e potei realizzare un vero e proprio cortometraggio di finzione, dal titolo Chora ( paese sulla collina che domina il mare). Fu un periodo magico, passai tre mesi in Calabria per fare provini ai ragazzi del luogo e preparare il film, che poi girai in dieci giorni. Chora aveva qualcosa di autobiografico, raccontava la storia di un ragazzin o di dodici anni, benestante e anche un po’ viziato, proveniente da Roma, che veniva lasciato da solo con la nonna, nella casa paterna ormai disabitata, mentre i genitori si recavano a Crotone per vendere dei terreni. La nonna muore e il ragazzino preso da l panico cerca aiuto, ma il paese è deserto e cos ì corre verso il mare attraversando le colline. Lungo il percorso incontra dei ragazzi della sua età, che gli faranno vivere delle esperienze nuove, tanto particolari da decidere di ritardare l’annunciazione della morte della nonna e vivere questa nuova dim ensione di vita, immersa nella natura, come una amorevole eredità lasciata dalla nonna. Chora ebbe molto successo. Vinse il primo premio in quasi tutti i festival italiani ed ebbe molti riconoscimenti anche all'estero. Incoraggiato, mi misi subito alla ric erca di una storia da raccontare per un lungometraggio da ambientare sempre in Calabria e proprio nel 2004 usci il libro di Carmine Abate "La festa del ritorno”. Il romanzo di Abate ha tutti gli elementi utili che mi hanno sempre affascinato per raccontare una storia di una terra apparentemente lontana, ma che mi appartiene per tradizione e cultura. Carmine Abate con il suo romanzo ha magistralmente costruito, probabilmente anche lui attraverso un percorso autobiografico, un quadro familiare da contemplare, su cui riflettere. I temi universali trattati sono molti: l'emigrazione, il lavoro, il sentimento di abbandono, la mancanza, la rabbia, il rapporto con la natura, il ritorno, la crescita, la famiglia e la complessità della sua sussistenza. Tutti questi t emi s’intrecciano e saranno raccontati attraverso lo sguardo e le emozioni di Marco, un ragazzino di dodici anni il protagonista della storia. La sua identità sarà messa in crisi più volte dagli eventi ed è proprio attraverso le sue emozioni, il suo sguard o vigile ma ingenuo che riusciremo a comprendere meglio la complessità e la difficoltà di crescere, ma anche la fortuna di vivere a stretto contatto con la natura. E, infatti, la natura è l'altra protagonista della storia. Natura intesa non come forma buco lica ma come forza motrice della vita, fonte inesauribile e di conoscenza e mistero che, purtroppo oggi stiamo sempre di più allontanando dalla nostra esistenza, ignorandola e negandole tutti gli insegnamenti che è in grado di darci. La natura incontaminat a, che avvolge il paese dove è nato Marco, sarà ripresa sempre con dei quadri di ampio respiro, sia visivo che sonoro. Sarà la natura stessa a guidarmi nelle inquadrature che ospiteranno i nostri personaggi. Un approccio antropologico rispetterà il dialett o e l'intonazione arberesh, ma non credo, se non in limitati casi, ci sarà bisogno dei sottotitoli. Troverò Marco e gli altri ruoli di ragazzi disposti a fare gli attori lì sul luogo, mentre per le altre figure mi appoggerò ad attori professionisti. Sono c erto con questo film di rispettare i concetti fondamentali dell'opera letteraria di Carmine Abate, riuscire con la cinepresa ad amplificarli e magari a portare alcuni di quei ragazzi anche nelle sale cinematografiche di Roma. Perché no?
Lorenzo Adorisio