Note di regista di "Mike"
Poter girare una serie che racconta una parte significativa della vita di Mike Bongiorno è una sfida molto difficile e, allo stesso tempo, una grandissima opportunità.
Mike Bongiorno è in assoluto il nome a cui ancora oggi, più di tutti, viene associata la televisione in Italia. Anzi, si può con obiettività affermare che la televisione nel nostro paese è nata con lui e che, per decenni e per generazioni di telespettatori italiani, Mike (il cui nome, per tantissime persone, basta e avanza) è stato più di una figura popolare: è stato una presenza paragonabile a un parente, a un fidanzato, a un amico di famiglia.
Per me la sfida è proprio questa: come si può raccontare al grande pubblico una figura così familiare e presente nelle vite di tanti italiani? Cosa può aggiungere a ciò che tutti sanno già? Qual è il punto di vista più giusto?
Ciò che ho fatto è stato scordarmi di tutto ciò che già sapevo e ricordavo di Mike, compiendo intanto un percorso di conoscenza il più profondo possibile. Ho scoperto una vita straordinaria e degna di essere raccontata anche alle nuovissime generazioni, non solo per ciò che Mike ha significato per la storia culturale e sociale del nostro paese, ma anche perché la sua vicenda ci racconta di temi universali che riguardano tutti noi: i legami problematici tra genitori e figli, il bisogno degli altri, l’importanza delle proprie radici, la ricerca tenace dell’amore.
L’ambizione è quella di esplorare e di raccontare l’uomo Mike, al di là della figura iconica e leggendaria che tutti conosciamo. In quest’ottica, tutto – dalla scrittura, al lavoro con gli attori, all’uso della macchina da presa – si basa proprio su questo dualismo: nella nostra serie, Mike passa in continuazione dalla dimensione pubblica a quella privata e viceversa.
Vediamo spesso Mike compiere questo passaggio, per cui non è infrequente che l’uomo timido e introspettivo, improvvisamente, davanti al microfono della radio o alla telecamera accesa, diventi la figura affabile e sicura di sé che tutti conosciamo, il geniale utilizzatore di un linguaggio apparentemente semplice, ma nella sostanza complesso, perché universale.
Lo stile di regia di Mike asseconda questo movimento costante dal fuori al dentro e comprende più livelli di ripresa che vanno a contaminarsi tra di loro, oscillando tra un uso della macchina da presa che filma una narrazione oggettiva degli eventi e un uso della macchina da presa che crea delle bolle di astrazione soggettiva.
Da un lato c’è un racconto intimo e a tratti doloroso della separazione dei suoi genitori, di una vita divisa tra due continenti, tra l’Italia e l’America, e dall’altro l’ascesa e la consacrazione prima nelle radio americane e poi in tv in Italia.
A tal proposito ho scelto di ricostruire la New York degli anni Quaranta e Cinquanta e poi degli anni Settanta, integrando le importanti costruzioni scenografiche a un utilizzo estensivo degli effetti visivi digitali, mentre, per quanto riguarda le sue celebri trasmissioni, ho optato per un’impostazione rigorosamente filologica provando a ricostruire fedelmente gli studi di Lascia o raddoppia? e di Rischiatutto, così come il teatro del Festival di Sanremo del 1967.
Mi piacerebbe che lo spettatore godesse di un grande affresco che attraversa una buona parte del secolo scorso in cui si racconta di un uomo che, a modo suo, ha contribuito a fare l’Italia e che è stato l’inventore della tv italiana, ma anche di un giovane studente che ha aderito alla lotta partigiana rischiando la vita. Vorrei però anche condurre lo spettatore in una dimensione intima, privata, umana, raccontando un essere umano con le sue fragilità, le sue paure e il bisogno d’amore autentico che tutti noi proviamo.
Giuseppe Bonito