TRIFOLE - LE RADICI DIMENTICATE - Tra tradizione e modernità
In un momento di confusione sulla propria vita, Dalia (Ydalie Turk) viene mandata dalla madre (Margherita Buy) a controllare il nonno (Umberto Orsini) nelle Langhe, dove l’uomo vive insieme alla sua cagnolina Birba.
Quello tra Dalia e Igor non è soltanto – come viene presentato dal lancio pubblicitario il film di
Gabriele Fabbro, "Trifole - Le radici dimenticate" – un ricongiungimento familiare, ma una riflessione sull’importanza di recuperare le proprie radici. Non è un caso che l’occupazione di Igor sia quella di cercatore di tartufi: il rapporto con la terra, il contatto con la natura, la rilettura dei mutamenti della geografia alla luce dell’esperienza contadina sono tutti elementi che permettono a Dalia di rivalutare dapprima il contesto in cui si (ri)trova e successivamente, in modo implicito, il suo stesso rapporto con la vita.
Se infatti le numerose vigne che hanno sostituito il bosco appaiono bellissime ad un primo sguardo, è il punto di vista dell’uomo a chiarire gli aspetti negativi della trasformazione paesaggistica, con le sue ripercussioni anche sull’indole umana: gli uomini si sono incattiviti, si è persa la bontà che regolava i loro rapporti e ciò che sembra un arricchimento e una riorganizzazione del paesaggio si rivela essere un abuso, una violenza, una prevaricazione dell’uomo sulla natura. La riflessione portata avanti da Fabbro tocca dunque temi profondi e molto attuali, come il consumo aggressivo del suolo e il rapporto tra tradizione e modernità.
È un peccato allora che la sceneggiatura (firmata dal regista e dalla protagonista) manchi di solidità e si perda spesso in lungaggini che spezzano l’andamento lineare del racconto, risultando pesanti o incoerenti con lo stile generale del film, con l’effetto di renderlo disomogeneo e pertanto poco efficace. Peccato – si diceva – anche perché il rapporto intergenerazionale tra la ragazza cresciuta a Londra (e quindi in un certo senso “sradicata” dalla sua originaria cultura familiare) e l’anziano “
trifolau” (invece ben radicato nel suo mondo, forse anche troppo) sarebbe interessante e ben costruito, non fosse per quell’intoppo delle due diverse lingue parlate che, sì, è efficace per orientare la comunicazione sui canali emotivi e materiali anziché su quello verbale, ma dal punto di vista narrativo risulta eccessivamente ostacolante nel suo continuo riproporre vani o problematici tentativi di dialogo.
Il lento adattamento di Dalia alla vita di campagna e il suo coinvolgimento (seppur fortuito) nel progetto di vita di Igor diventa specchio di un progressivo ridursi della sua confusione esistenziale nonché (forse) di un chiudersi del cerchio della tradizione familiare, con l’abbracciare un’attività che è manifestamente ed esplicitamente un progetto, un “purpose” (cioè uno scopo), fondamentale per la sua crescita personale della ragazza. Il problema è che tutto ciò rimane “in potenza”, lasciato troppo implicito e non adeguatamente sviluppato.
Ci si può consolare, tuttavia, ammirando i bellissimi paesaggi delle Langhe (splendidamente fotografati da
Brandon Lattman), godendosi la bravura di
Umberto Orsini e lasciandosi trasportare dagli adattamenti a cura di Alberto Mandarini delle partiture di Respighi, Rossini, Vivaldi, Rachmaninoff, Borodin, Delius e Glazunov, che con la loro malinconia rendono palpabile la presenza costante dello svanimento della memoria, tanto personale quanto collettiva.
11/10/2024, 08:23
Alessandro Guatti