Note di regia di "Ciao Bambino"
Ho avuto la fortuna di avere una macchina abbandonata sotto casa, al centro di alcune palazzine popolari, che diventava per noi della banda un covo, un salotto, una stanza che ci riparava dal freddo e dal mondo attorno: le prime sigarette, racconti sui fantasmi o di biografie adulte che sembravano più rocambolesche delle nostre, le partite a carte, lo sguardo sul futuro che non preoccupava nessuno, perché nessuno poteva immaginarlo. Allora la musica della musicassetta neomelodica abbandonata anch’essa nell’autoradio parlava solo di amori impossibili e lontani, come i nostri sogni. La macchina era di un uomo adulto, uno del nostro quartiere, figura grottesca e funesta che vendeva i fuochi d’artificio a Capodanno, le pannocchie in estate, le mimose per la festa della donna, raccoglieva spazzatura per rivenderla al mercato delle pulci, un uomo che prendeva a morsi la vita e quindi un uomo che aveva perso la voglia di scherzare. Come in qualsiasi biografia si deve crescere e l’idillio dell’adolescenza svanisce.
Così come passò la voglia di scherzare anche a me che poco più di un adolescente decisi di voler “salvare” mio padre dai suoi demoni e dai suoi vizi, pretesi da quell’adolescente di diventare grande attraverso questo principio: devo aiutare mio padre. Ma sono passati tanti anni, anni di falsi inizi e promesse non mantenute, quindi ci ho riprovato con il film, con “Ciao Bambino”, come un Amleto senza Shakespeare, ho messo in scena i nostri ricordi utilizzando lui come attore e la nostra vicenda con la speranza di ritrovare una qualche forma di catarsi, a lui serviva per avere uno sguardo esterno a me per comprendere le difficoltà di questa nevrosi e liberare anche me da questa responsabilità. Lo stile cinematografico, te lo impone: mettere in bella copia i drammi. Usare la menzogna non nei contenuti ma nella forma. Il film insiste su questo ragionamento o meglio su questa domanda: come ci si relaziona con l’eredità?
Provando a guardarla anche da una prospettiva diversa, forse più ampia, qualsiasi sia lo scopo c’è l’ingombro dell’eredità, anche quando ci si innamora, come accade a Attilio nel film. Il film è immaginato interamente al Rione Traiano, periferia ovest di Napoli che è il quartiere dove sono nato, che ha generato i miei ricordi e quindi la storia del film. Una comunità che somiglia sempre meno a un quartiere e sempre più a enorme circo malinconico che tira a campare nei modi più insoliti e vive alla giornata, dimenticati dalla Storia e dal resto delle cose e dimenticato dal dolore, perché il dolore è deriso dal tono canzonatorio e dalla libertà dei personaggi e non solo ma il decentramento testuale della povertà/dolore aiuta a dare anche spazio al racconto politico e sociale, capace di rappresentare con forza il degrado morale di chi nega la possibilità di vivere normalmente a chi è nato ai margini delle grandi città. Il fascino e la vitalità dei protagonisti rendono le cose più leggere in un film che può sembrare pessimista, anche se accorto a non cadere nel genere di film del dolore: ricattatorio ed esplicito. La povertà è vista senza alcuna pietas ma come la capacità di sorridere del dolore e di gioire nelle sequenze oniriche e rocambolesche che durante il racconto alimentano i sogni dei protagonisti. E quindi come la possibilità poetica di desiderare cose semplici ed essenziali che (nel mondo contemporaneo che si delinea) appaiano sempre più irrilevanti e secondarie perché nascoste dietro chissà quale perverso desiderio di potere o di benessere.
Edgardo Pistone