FESTA DEL CINEMA DI ROMA 19 - "Si dice di me"
Il teatro come terapia, come medicina, come atto di ribellione: questa è l’arte che
Marina Rippa offre alle donne del quartiere napoletano Forcella dal 1994.
“Teatro per e con le donne”, come sottolinea una didascalia presente all’interno del bel documentario firmato Isabella Mari
Si dice di me, un’opera appassionata e appassionante che, seguendo le prove di alcuni spettacoli di questa eccentrica compagnia tutta al femminile, riesce a raccontare non solo i caratteri e i conflitti interiori di molte partecipanti, ma anche la generale condizione femminile di un certo ceto socio-culturale.
Se ognuna delle protagoniste si espone in prima persona, davanti al pubblico degli spettacoli nonché davanti alla regista del film (e quindi anche a noi), è interessante il modo in cui Mari sa far emergere il reale fulcro del lavoro di Marina, ovvero la creazione di una comunità femminile, una rete di sostegno psicologico e affettivo. Questa tematica si legge già nella prima inquadratura, con il filo rosso che passa tra le mani delle donne, unendole e forse, addirittura, guidandole. Questa perfetta sintonia tra le due registe (teatrale e cinematografica) è sicuramente anche frutto della collaborazione nata nel 2020 al Museo Madre di Napoli per la video-installazione Ri belle, ma è innegabilmente anche un incontro di sensibilità affini.
Dal 2013 il laboratorio teatrale “La scena delle donne” è ospitato nello spazio comunale Piazza Forcella, che è diventato un vero e proprio avamposto culturale del quartiere, non esente da difficoltà economiche e burocratiche (specialmente durante la pandemia da Covid-19) ma in grado di donare alle donne la possibilità inedita e inconcepibile di ritagliarsi uno spazio per sé.
Uscire la sera da sole, senza il marito, magari vestite bene, e invece di andare dall’amante (!) recarsi a prender lezioni di teatro è davvero una dirompente novità per un certo ambiente, una vera e propria rivoluzione. E non è un caso che parte del lavoro del laboratorio (nonché del documentario) sia improntato proprio alla tematica della ribellione: la sequenza in cui ascoltiamo queste donne raccontare le loro personali rivolte (fidanzarsi con un ragazzo di 12 anni più grande, andare a lavorare a 13 anni visto che il padre non acconsentiva allo studio, smettere di assumere medicinali per controllare i tic nervosi…) mentre le compagne le guidano e le conducono in una danza catartica è potentissima perché da un lato ci mette in contatto con la loro psicologia e la loro emotività, dall’altro ci fa riflettere sull’importanza di quelle che sembrano ai nostri occhi piccole conquiste ma che in realtà sono costate (e costano tuttora) enorme fatica.
La sapiente organizzazione delle scene da parte di Mari e della montatrice Lea Dicursi costruisce una narrazione efficace che, pur ancorandosi a un impianto da documentario stilisticamente tradizionale, se ne discosta in quanto lascia la parola esclusivamente alle sue protagoniste creando un cortocircuito tra le loro interviste e l’opera teatrale stessa, affidando una minima illustrazione del contesto a pochissime semplici didascalie e a qualche significativa immagine del quartiere.
Ciò che emerge è dunque un microcosmo che si regge da sé, che non ha bisogno di altro per raccontarsi e che cerca soltanto un pubblico desideroso di ascoltare gli esiti di un lavoro che è in realtà una confessione, un atto di coraggio, un dire di sé una verità altra rispetto a ciò il mondo vuol far credere.
Perché nessuna di queste donne è solo ciò che si dice di lei. E non dovremmo esserlo neanche noi.
22/10/2024, 08:30
Alessandro Guatti