Note di regia di "Criature"
Per tanti anni, ho girato film che parlavano solo di guerra, di morte e di desolazione. Documentari che tentavano di raccontare l’origine del male, la condizione delle famiglie lacerate da interminabili conflitti. Dall’Afghanistan a Banda Aceh, dal Darfur al terremoto di Haiti, ho passato anni a correre da un disastro all’altro - finché un mio documentario, Voyage en barbarie ha ricevuto il premio Albert Londres, considerato come il Pulitzer francese. Un giorno mi venne chiesto di andare a Napoli, nel mezzo della faida di Scampia. Al mio arrivo, in pochissimi giorni, ho sentito che la città conteneva una fonte infinita d’ispirazione, era eruttiva e vitale come il vulcano che si alzava sopra di lei. Ne ho amato gli odori, le grida, i colori, ma soprattutto, le persone: ho passato mesi, anni a seguire il lavoro di una squadra di incorruttibili investigatori della sezione Narcotici artefici della grande indagine dalla quale è stata poi tratta la trama di «Gomorra» - poi dell’arresto di Raffaele Amato, il capo degli scissionisti di Scampia. Ho seguito le sottili indagini di magistrati capaci di smantellare pezzi interi del potere criminale campano. Infine ho incontrato diversi educatori di strada, che vedevo darsi anima e corpo al mestiere, camminare per ore nelle strade di Napoli, sostenendo ragazzi giovanissimi già in bilico nelle proprie esistenze perché senza una famiglia, senza la speranza di un futuro. Ogni giorno, li vedevo combattere per ottenere fondi, lavorare con pochi mezzi per riscattare una parte della popolazione. Dalle guerre più lontane sono passata al cuore di una battaglia quotidiana, quella che si gioca per le strade, tra i più umili e disagiati, una battaglia per la vita. Per me Napoli è diventata questo: un simbolo di resistenza, di resilienza, essenziale per ricomporre l’identità italiana. Quella parte dell’Italia che vedevo da ragazzina nei film di De Sica, Comencini, Loi, mi sono messa a filmarla ed è diventata una parte essenziale della mia vita come regista. Ho girato diversi documentari a Napoli, prima di scrivere Criature. Ho elaborato anno dopo anno una visione artistica, il modo in cui volevo raccontare la città. I miei primi film testimoniano di questa evoluzione: è un cinema già molto vicino ai protagonisti, un cinéma incarné - che tende a girare come attraverso gli occhi del personaggio principale. Sono convinta che sia essenziale ridurre attraverso scelte chiare di regia la distanza tra lo spettatore ed una realtà a lui del tutto estranea per gettare una passerella tra i mondi ed imbarcarlo in un’altra dimensione fisica e temporale. Per Criature mi sono ispirata alla storia di Giovanni Savino, educatore e fondatore del Tappeto di Iqbal, nel quartiere di Barra - la sua pedagogia circense, l’insegnamento di quello che gli psichiatri chiamano la «formazione tra pari», è stata fondamentale nella scrittura della sceneggiatura, che volevo trasmettesse quel senso di ricomposizione dei valori e dell’identità di ogni ragazzo - dalla vergogna per la propria condizione, alla fierezza dell’alzarsi sui trampoli con un naso rosso, insieme, per raccontare al pubblico (diegetico e extradiegetico) una storia nuova. Ho lavorato a monte con i giovani attori del film per creare un gruppo solidale, sincero nei propri slanci: l’allenamento circense, in questo, mi ha aiutato. Per ottenere una recitazione spontanea, scartare il melodramma, abbiamo messo settimane, decostruito e esplorato le emozioni dei singoli personaggi. Era fondamentale «fare banda» - con i ragazzi, condividere con loro musiche, letture, difficoltà ed emozioni, di modo da poter tradurre nel film la forza di quegli adolescenti che riescono a immaginare un futuro. Nel linguaggio cinematografico, ho prediletto una narrazione in piano sequenza, che ogni giorno preparavamo a lungo con il DOP Valerio Azzali e la seconda camera Marianna Fratantoni: bisognava coreografare i movimenti della camera per «volare» da una battuta ad un altra. Come in un teatro di posa, tutti gli attori erano pronti ad entrare in scena appena si avvicinava Valerio, e tutti, in realtà dovevano recitare E la seconda camera, spesso nello stesso asse, raccoglieva i dettagli, le variazioni poetiche. Alcune scene erano così corali e complesse che all’inizio eravamo costretti a girare un Master per capirne meglio le dinamiche. Rapidamente, abbiamo trovato il nostro ritmo: preparazione con gli attori, capendo quando avvicinarci e quando non, quando lasciare uscire gli attori dal campo, quando seguirli - e poi soli 3 o 4 take a scena, perfezionando il legato ogni volta. A volte, non davo lo stop a fine take: e raccoglievo le battute estemporanee degli attori come pietre preziose, tutte inserite nel montaggio. In questo, ho trovato due sparring partner ideali in Marco D’Amore e Maria Esposito, che hanno dimostrato un grande talento per l’improvvisazione. Non volevo versare nel mero dramma sociale ma proporre un cinema popolare, pieno di speranza. Per questo ho integrato nel film elementi chiave: l’uso della lettura del Barone rampante come metafora della fantasia indispensabile alla crescita dei ragazzi - non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo, come diceva Rodari. Ma anche una forte dimensione musicale, che riflette la capacità napoletana a trasformare la storia in canzone, riportata nel film dal talento di Dario Sansone, musicista dei Foja, sorta di Bruce Springsteen dei quartieri, capace di condensare in «I am walking» la perseveranza di un uomo, o in un «Apress’a nuje» il richiamo adolescente alla magia e all’immaginazione. Dal punto di vista della narrazione, un lavoro curato di sound design è stato necessario per ricostruire il fuori campo, trattato come un vero personaggio del film, con la sua caratterizzazione sonora: motorini che sgommano, sirene che ululano e passaggi di persone fuori dal recinto protettivo del doposcuola sono sempre presenti come un pericolo invisibile. Le sfide erano tante, per il numero di attori, la necessità di tessere delicatamente il filo tra recitazione, canto e circo. Nel montaggio, ho poi prediletto con Alessio Doglione una narrazione stretta, densa, che non lascia il tempo al racconto di perdersi in contemplazione e restituisce l’urgenza di una vita vissuta nella tensione perenne. Dopo un inizio in slow burn nel quartiere, il racconto si svolge in un microcosmo composto da quattro/cinque strade, dove gli eventi si susseguono creando un'impressione di bolla… L’isola felice del doposcuola, lavorata con luci calde e suoni attutiti, si urta con la freddezza metallica della piazza di spaccio che si anima di notte… l’intento era di creare un pezzo d’Italia cosi confinato da diventare epico e universale. La storia poi propone un doppio timelock chiaro: la sfida dello uno spettacolo circense ma soprattutto l’esame di terza media, che determinerà se il protagonista avrà o meno «salvato» dal lavoro precoce e dalla presa criminale la banda dei ragazzi. Nel montaggio abbiamo inserito - come tante porte metaforiche - elementi di realismo magico: un cavallo bianco presente in un cortile, mura popolate da uccellini, un cane a tre zampe che vaga per il quartiere - che indicano allo spettatore il sottilissimo punto di passaggio tra realismo e utopia. Ed in effetti piano piano, Criature scivola dal western urbano - un uomo solo che circola tra i vicoli, circondato da pericoli invisibili ma che lui percepisce perfettamente - ad una dimensione molto più onirica. Ho provato a farlo diventare un corpo filmico organico, una mia Criatura che alla fine non ha paura, come i ragazzi che ne sono protagonisti, di sfuggire del tutto alla realtà e di restituire la possibilità del sogno come un puro elemento di cinema.
Cécile Allegra