IL GATTOPARDO - Un kolossal che ha ancora tanto da dire
«
Tu che a Dio spiegasti l'ali,/ o bell'alma innamorata,/ ti rivolgi a me placata,/ teco ascenda il tuo fedel».
Con quest'aria di Edgardo in “Lucia di Lammermoor” di Gaetano Donizetti, proveniente da un organetto sotto la finestra, spirava il principe di Salina nel romanzo “
Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Non una scelta causale se in una lettera all'editore Ricordi il compositore aveva così descritto la prima rappresentazione dell'opera al Teatro San Carlo di Napoli: «Ogni pezzo fu ascoltato con religioso silenzio». Viene alla mente quel dignitoso cordoglio che Fabrizio Corbera sogna guardando un quadro ritraente l'immagine di un uomo che muore fra i suoi cari. Il primo evento è assente nella trasposizione di Luchino Visconti, che si concentra esclusivamente sui primi cinque capitoli del libro, mentre il secondo è invece centrale nella macrosequenza del ballo che chiude la pellicola. È perciò evidente come il testo sia stato soprattutto un'ispirazione per le atmosfere, una sorta di canovaccio di emozioni e sensazioni che hanno però dovuto trovare nuova forma e nuovo ordine sullo schermo. Visconti rielabora le suggestioni di Tomasi di Lampedusa intorno al trauma che la campagna garibaldina rovesciò nelle sale dell'aristocrazia borbonica con una struttura operistica in tre atti e un pugno di eventi raccolti in macrosequenze, di cui quella finale del ballo di cui sopra è la più lunga e sorprendente. Non sappiamo se negli anni sessanta qualcuno se ne accorse, ma chi conosce e ama il cinema di Orson Welles ivi sente gli echi de “L'orgoglio degli Amberson” (1942), nel quale di nuovo si concentrava simbolicamente in un estenuante ricevimento danzato la malinconica gioia della fine di un'epoca, la sua schizofrenia. È quasi certo che nello scrittore e nel nobiluomo si immedesimò lo stesso Visconti. Quando il film uscì nelle sale, nel marzo del 1963 (addirittura prima di vincere la Palma d'oro al Festival di Cannes), il pubblico italiano era abbastanza preparato a riceverlo. Da una parte il capolavoro dello scrittore-duca era stato pubblicato solo nel 1958, dall'altra la Rai aveva di recente mandato in onda uno speciale di Ugo Gregoretti (il gustosissimo documentario “La Sicilia del Gattopardo” del 1960) sui luoghi e i personaggi evocati proprio in quelle pagine. A proposito di figure, interessante sottolineare come all'inizio l'imposizione produttiva di Burt Lancaster nel ruolo del maturo e disilluso protagonista non andasse a genio a Visconti, giungendo ad affrontarlo sul set. Il regista dovette però ricredersi davanti alla passione e alla sincerità che l'attore mostrò durante l'invettiva, tanto che i due hanno poi sviluppato un rapporto stretto e amichevole per il resto del processo di riprese. Altrove, nei panni degli innamorati volti della modernità Tancredi e Angelica continua a risplendere la carismatica giovinezza di Alain Delon e Claudia Cardinale, già insieme in “Rocco e i suoi fratelli” (1960). Mentre si difendono, seppure assai sopra le righe, i vari Paolo Stoppa e Romolo Valli. Per non citare il contributo della 'creme' del cinema italiano: dalla penna di Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa e Enrico Medioli ai costumi di Piero Tosi, dalle musiche di Nino Rota (con un valzer inedito di Giuseppe Verdi) alla fotografia di Giuseppe Rotunno. Colpiscono il dolly iniziale – di cui si ricorderà Bernardo Bertolucci preparando “Novecento” (1976) - ma soprattutto una sezione poco considerata come quella quasi onirica del pensiero della bellissima e misteriosa madre di Angelica in preghiera. Ecco la forza di un film che non finisce mai di stupire! La chiave di quest'opera è comunque la messa in scena di dinamiche psico-sociali estremamente complesse, nonché la lirica spettacolarizzazione di quello che i critici avevano denunciato come il passaggio dal Neorealismo al Realismo Storico già riguardo “Senso” (1954). L'autore-conte milanese, allievo del poetico Jean Renoir, era perciò atteso al verco quando decise di affrontare la terra e gli stracci ospitati prima di tutto nelle pagine veriste di Verga. Il risultato fu un kolossal in costume riuscitissimo sul piano artistico ma che portò al fallimento la società Titanus, come accadrà vent'anni dopo con l'ugualmente straordinario e incompreso “I cancelli del cielo” (1980) di Michael Cimino a spese della United Artists. Oggi la decadenza narrata in questi film pare quasi presagire e rispecchiare il loro stesso destino, e ciò risulta persino più convincente in questo secolo che rischia di accumulare meccanicamente memoria senza capirne la sostanza. Ora più che mai si sente il bisogno di riflettere sull'importanza delle rivoluzioni. Intanto molti elementi del libro non hanno trovato una riduzione audiovisiva per scelta di sceneggiatura oppure causa tagli successivi, perciò incuriosisce l'imminente serializzazione di una storia che deve cambiare per restare uguale.
08/02/2025, 12:22
Alessandro Amato