Note di regia di "I Mastri"
È dal 2017 anni che giro l’Italia in lungo e in largo alla ricerca di mastri, nello stesso modo in cui a suo tempo sono andato alla ricerca di contadini. In queste ricerche ho fatto esperienza di uno stupore e un incanto nel ritrovare intatte culture millenarie, ma anche di una grande frustrazione, mia e di chi quelle culture le incarna, nel vederne altrettante in pericolo.
Quello che mi interessava raccontare erano storie di mastri artigiani e delle loro botteghe, che erano laboratori di ricerca, identità, sperimentazione acquisite di generazione in generazione. Dopo aver girato la penisola in lungo e largo e incontrato decine di mastri, ho osservato che a caratterizzarli fosse la non serialità e il voler instillare nell’opera il loro personale tocco, ma con il tempo mi sono accorto che stavo cercando altro.
Ciò che mi aveva incuriosito è che questi uomini e donne, ripetevano un gesto all’infinito, perfezionandolo sempre di più nel tempo. Il fatto che la loro attività liberatrice, dipendesse dalla reiterazione del gesto, mi ha fatto pensare al Mito di Sisifo, condannato dagli Dei a portare e riportare all’infinito un masso sulla montagna per pagare il pegno di aver cercato la propria libertà.
C’era un secondo aspetto, che balzava all’occhio. Come l’uomo si prepara a sfidare il tempo? Quel bagaglio di ricordi, conoscenze, sfrontatezze vissute a cosa gli sono servite? A osservarli bene, i vecchi mastri, sceglievano in fondo quello che era più vicino a loro da giovane. Il più inquieto, ribelle, non salvabile per la società, loro se lo mettevano di fianco e lo facevano diventare uomo, ancor più che artigiano. Per loro, l’essenza del mastro non finisce quando va via, ma se smette di insegnare. Come se la sua esistenza fosse parte di una secolare staffetta in cui una comunità protegge i suoi saperi nel tempo. Mi venne in aiuto la ricerca che facevo da un decennio sulla Focara di Novoli, in Puglia dove da secoli si costruisce ogni anno, nell’arco di un mese, una gigantesca montagna di tralci di vite, sovrapposte le une alle altre, che viene bruciata come buon augurio per la primavera che arriva. Questo monumento di venti metri di diametro, venticinque di altezza. è costruito dal maestro Renato e il suo allievo, Claudio, si occupano assieme a decine di volontari. Dentro questa Focara, questo totem, si racchiudevano i gesti, i segni, individuali e collettivi che la comunità doveva conservare. Questo film voleva essere una ricerca antropologica sul mondo artigiano, ma nel tempo si è trasformato in una ricerca su cosa caratterizza l’essere umano, sul senso che l’uomo dà al suo passaggio sulla terra: il tempo che passa, la realizzazione di sé stessi, la propria eredità.
Più che mettersi alla ricerca dei motivi e delle cause che determinano la scomparsa dei mastri, il film si interroga sulla possibilità e il senso di tramandare alle future generazioni arti che la storia e l’economia fanno sì che non abbiano più ragione di esistere. Ciò che emergerà lungo il cammino è che questa ricchezza è prima di tutto una ricchezza di sguardi sul mondo. L’unicità dei personaggi raccontati, infatti, risiede nella loro capacità di dare concretezza a quegli sguardi nell’incontro con la materia, che, prima ancora che da una tecnica, viene di fatto plasmata da una visione del mondo. Se scompaiono i mastri, non scompaiono prodotti, scompaiono mondi.
Daniele De Michele