BIF&ST 16 - PER AMORE DI UNA DONNA di Guido Chiesa
1978: una lettera della madre, scritta dieci anni prima e consegnatale soltanto dopo la morte della genitrice, spinge Esther a lasciare gli Stati Uniti alla volta di Israele, alla ricerca di una donna misteriosa di nome Yehudit. Il viaggio si rivela molto più personale ed importante del previsto, in quanto mette in discussione le più radicate convinzioni della donna riguardo la propria infanzia.
Adattando insieme a Nicoletta Micheli il romanzo
The Loves of Judith dello scrittore israeliano Meir Shalev,
Guido Chiesa affronta nel suo
Per amore di una donna (che è poi anche il titolo della traduzione italiana del libro) i temi della ricerca di sé e della correlazione esistente tra le proprie origini e la direzione impressa alla propria vita.
Nel seguire alternativamente l’indagine di Esther e la storia di Yehudit, il regista di
Ti presento Sofia, Il partigiano Johnny e Lavorare con lentezza ambisce a restituire la difficoltà di una ricerca identitaria che scava nella storia della famiglia della protagonista e in quella dello Stato di Israele, dall’epoca del Mandato britannico della Palestina alla fine degli anni Settanta. Benché la fluida progressione della vicenda riesca a catturare l’interesse dello spettatore, bisogna riconoscere come l’escamotage del montaggio alternato su larga scala sia funzionale più alla creazione di questo interesse che alla costruzione di una gratificante complessità narrativa. Tuttavia, dietro tale alternanza risiede forse la scelta registica più riuscita e determinante del film. Non si può evitare di essere colpiti, durante i primi minuti di visione, dalla decisione atipica del regista di connotare il presente narrativo con una bassa luminosità e una fotografia desaturata, in netta contrapposizione agli sgargianti e pastosi colori del passato.
A mano a mano che la ricerca di Esther procede, però, le inquadrature si scaldano e la saturazione aumenta, fino a uniformare a livello cromatico la sua storia a quella di Yehudith nel momento in cui Esther scopre la verità, a simboleggiare il fatto che la comprensione del suo passato e la rimarginazione della sua ferita interiore la rendono completa e pienamente presente a sé stessa e al mondo.
Lo spirito di intraprendenza che sfiora la noncuranza delle conseguenze dimostrato da Esther nella scelta finale si rivela così la chiusura di un cerchio non solo di maturazione personale ma anche di corrispondenza storica con la figura di Yehudit, il cui vissuto è stato segnato da una grande determinazione e da una sofferenza altrettanto profonda, da una ferrea volontà di imprimere la propria visione del mondo e da un avanguardistico senso di appartenenza alla collettività che anche oggi troverebbe difficoltoso affermarsi pure in seno a società che si definiscono progressiste.
In questo senso, lo sguardo di Shalev prima ancora di quello di Chiesa elegge Yehudit a simbolo dell’amore che cambia il mondo, della ribellione contro lo status quo fallocentrico e della possibilità di una nuova via alla vita sociale. In filigrana, naturalmente, ci sono il sionismo, l’epica dei pionieri e l’elogio dei kibbutz e dei moshav (villaggi cooperativi di lavoratori agricoli) con il loro multiculturalismo.
Al centro di tutto, però, risplende la donna con i suoi amori: gli uomini che ella riunisce intorno a sé e i suoi figli.
26/03/2025, 08:00
Alessandro Guatti