Sinossi *:
Il documentario racconta lo straordinario percorso del Rwanda attraverso la storia della rinascita delle donne sopravvissute al genocidio contro i Tutsi del 1994. Per fare ciò intreccia il racconto di tre donne ruandesi: Yvonne Tangheroni Ingabire che all’epoca del genocidio aveva 9 anni, adottata da una famiglia italiana, lavora alla Caritas internazionale e sostiene una scuola in Rwanda; Valerie Mukabayire, è direttrice della scuola materna Amahoro finanziata dalla onlus “Progetto Rwanda” e legale rappresentante dell’associazione AVEGA, che dal ‘95 aiuta le vedove del genocidio con progetti di assistenza legale, socio economica e di sostegno psicologico e sanitario; Godelieve Mukasarasi fondatrice e legale rappresentante dell’associazione SEVOTA che da 25 anni si occupa delle donne vittime di violenze sessuali subite durante il genocidio e dei loro figli nati dagli stupri. Attraverso le loro testimonianze dirette dei tragici eventi e delle azioni seguite ad essi, si ricostruisce un quadro della rinascita del paese, che da una distruzione quasi totale è riuscito a risollevarsi e a riproporsi come un modello di sviluppo e pace sociale per l’Africa intera. Attraverso il film entriamo in contatto con una realtà straordinaria e poco conosciuta, fuori dagli schemi comunicativi classici del “miserabilismo” della narrazione del continente africano, con una testimonianza di estrema positività. Un racconto che prende una dimensione esemplare, non limitata alla storia del piccolo paese africano ma che in tempi di rinascita di ideologie discriminatorie e intolleranti serve a riflettere anche sul presente, sul nostro qui e ora.

NOTIZIE 'Rwanda, Il Paese delle Donne'



Note:
LA STORIA DEL RWANDA
Nel 1994, in soli 100 giorni, si è svolto, nell’indifferenza del mondo, un genocidio, il più efferato dei crimini contro l’umanità: il genocidio contro i Tutsi. A noi quel genocidio fu raccontato poco e male. Si disse che fu la conseguenza della struttura “etnica” della società, della contrapposizione Hutu e Tutsi, mentre sappiamo che prima della colonizzazione belga essi convivevano in pace e che si differenziavano solo per la loro identità socioeconomica: coltivatori gli Hutu, allevatori i Tutsi. Ma quando i belgi, nel 1933, cristallizzarono tale supposta differenza “etnica” nelle carte di identità, si arrivò al punto di non ritorno. Si disse anche che esso fu il risultato di un “improvviso scoppio di violenza”, mentre fu preparato nei minimi dettagli e fu il prodotto di un meccanismo messo in moto almeno dal 1959, quando salgono al potere gli Hutu, alla morte dell’ultimo re Tutsi. Per le donne ruandesi quel genocidio ha voluto dire stupri di massa sistematici e forme atroci di tortura, ma, a poco a poco, queste stesse donne, nella loro dolorosa ricostruzione, ancora in atto con numerose contraddizioni, hanno saputo uscire da quella terribile zona d’ombra, fatta di trauma e vergogna. Contro l’imposizione del silenzio, hanno assegnato al racconto della violenza subita un forte significato politico: hanno chiesto e ottenuto che lo stupro fosse riconosciuto come atto di genocidio e crimine contro l’umanità e che i responsabili fossero processati davanti al Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda.

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