Sinossi *:
Vent’anni fa, nel novembre del ’94, nasceva il Laboratorio teatrale interculturale Human Beings, uno spazio di confronto e scambio in cui si incontrano persone con esperienze di vita e culture diverse. Un Kontakthof (alla lettera “luogo di contatti”) dove provare a scoprire e mettere a nudo i rapporti tra esseri umani, nella loro banalità e complessità, dare corpo alle fantasie e alle emozioni, possibilmente con leggerezza e ironia, proprio come in quello spettacolo di Pina Bausch che quella parola ebbe a titolo.
“Human Beings si rivolge ed è abitato in prevalenza da stranieri, ma non lo fa per vendere socializzazione ma per acquistare differenze. Tante differenze da poter abbracciare l’umanità che è inscritta nel titolo: non certo per rappresentarla ma al contrario per essere certi di non smettere mai di interrogarla. Non si tratta di sommare attori di tutti i paesi per ottenere l’ennesimo ritratto pubblicitario all’umanità (leggi: società multietnica), ma di sottrarre da ciascuno la propria identità per rintracciare quel davvero minimo comun denominatore che è l’essere umano. È lui lo straniero da ricercare in ciascun attore (e spettatore); è non è detto che sempre ci sia, che sia in grado di parlare o di muoversi o appena di vivere. Sia pure nello spazio protetto di un laboratorio o nel tempo sospeso di uno spettacolo teatrale.” (Piergiorgio Giacchè, dal libro Carte pubblicato nel 2004, in occasione dei primi 10 di attività di Human Beings).
Nel 2011, in seguito alla guerra in Libia, anche a Perugia sono arrivati molti profughi richiedenti asilo: persone che vivevano in una condizione di totale spaesamento, con una situazione esistenziale “sospesa”, dipendente da altri, e con scarse o nulle possibilità di contatto con il resto della popolazione. Alcuni di loro hanno trovato in Human Beings un rifugio, un luogo protetto in cui sentirsi sicuri, tanto da poter condividere con gli altri le proprie storie (guerre, persecuzioni, fughe, esilio), e i propri desideri, e quindi trovare il modo per raccontarli e riviverli nel teatro. Qui si sono trovati a loro agio, forse perché non si trattava dell’ennesima “offerta” creata ad hoc per richiedenti asilo, chiusa e separata, ma di un luogo in cui potersi confrontare alla pari con gli altri (italiani e stranieri non nella loro condizione): esseri umani tra esseri umani, accomunati da tante simili curiosità e paure, pur con un retroterra e delle aspettative anche molto diverse. Non si è pensato certo di azzerare le differenze, o di banalizzare la specificità della condizione di profugo; ma, prima di tutto, si è voluto contribuire a rimuovere le etichette, lo stigma del diverso, almeno nel tempo e nello spazio del laboratorio. Il senso della “protezione del diverso” è ben chiarito da Édouard Glissant nella citazione che chiude il filmato: “Rivendico il diritto di ognuno all'opacità, ossia a non essere compreso totalmente e non comprendere totalmente l'altro. Bisogna vivere con l'altro e amarlo, accettando di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui. Chiamiamo dunque opacità ciò che protegge il Diverso” (Poetica della Relazione).


Produttore:
Gabriele Anastasio

Regista Lavori Teatrali:
Danilo Cremonte

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