Sinossi *:
Due mani raccolgono il fango da una pozzanghera e cominciano a plasmarlo. Sono le mani di un bambino, di un essere primordiale, di un dio? Le mani manipolano la sostanza informe, creano figure sempre più complesse. Viene costruita un’intera città di argilla. Ma l’istinto creativo è ancora forte e le mani continuano a plasmare, questa volta una figura antropomorfa, un fantoccio di fango. Le dita sporche di argilla tracciano sulla fronte della creatura segni simili a lettere fino a formare la parola EMET, “vita”. Il fantoccio, il Golem, apre gli occhi. Si anima, interagisce con sé stesso, con l’ambiente, con la propria immagine riflessa. Per poi venire contaminato a sua volta del desiderio della creazione, dall’urgenza di plasmare. Ma creazione e distruzione si autoalimentano. Il fango, non scorre via come l’acqua, non si consuma come il fuoco, non si scioglie come la neve. Permane. Rimane attaccato alla pelle, agli oggetti, ai pavimenti, ai soffitti, modifica radicalmente il territorio che incontra e la materia con cui entra in contatto. Non disintegra ma impone una mutazione. Il fango entra negli occhi, modifica lo sguardo. Anche nella sua valenza distruttiva, esercita un potere demiurgico. Il fango, incarnato dalla figura del Golem, è profondamente legato all’istinto creativo, al bisogno umano di plasmare, di dare nuova forma alla realtà, di modificare l’ambiente: è probabilmente la prima materia non organica con cui l’uomo si è relazionato nel suo agire attivamente sul territorio. Al contempo, tuttavia, il fango detiene un enorme potere distruttivo, la capacità di distruggere intere città. Come recentemente abbiamo sperimentato da vicino, durante le recenti alluvioni in Romagna.

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