Note del film Chiusura di Alessandro Rossetto
Chiusura è un meraviglioso film di ascolto sensibile, di dolce captazione del tempo che passa. Il tempo che nel salone si dilata: non sappiamo più bene se è martedì o sabato, anche se la radio ricorda regolarmente l’ora del giorno. Il tempo tra una permanente e uno shampoo, nel frastuono del casco che asciuga. Il tempo di un caffè, di una sigaretta, di parole quotidiane ed essenziali: l’amore, la malattia, la famiglia. E, poiché la forza del film è anche di smontare i luoghi comuni su questi luoghi, si parla di Ronald Reagan, dell’LSD o della guerra in Rwanda. Queste anziane signore ci stupiscono e ci toccano nel più profondo. Per la bellezza delle loro rughe e dei loro volti, filmati in primo piano, con quei bigodini che diventano corone. Per la sincerità e la saggezza di ciò che dicono sulla loro immagine che lo specchio riflette. Per l’assenza di meschineria e per l’autoironia della quale danno prova, l’humour devastante del loro musicale dialetto. E’ ben più di un luogo di lavoro, quello di cui si parla in Chiusura: è un luogo di vita, un centro vitale. Il salone di parrucchiera è il punto di partenza di tutti gli incontri fatti dal regista, questo punto comune ed originale guida le scene girate fuori dal negozio. Rossetto filma da molto vicino il mondo di Flavia, ma segue anche una squadra di calcio femminile e un piccolo circo itinerante. Il film evita con grazia ogni stereotipo: siamo a Padova, in Italia, oggi. La bella bionda del numero del lanciatore di coltelli e le dure discussioni delle calciatrici nello spogliatoio diventano il contrappunto leggero del film. Le canzoni in solitudine, sentimentali ma mai mielose, sono commento eterno di un’istantanea di vita.
Con uno sguardo dolce, il film mostra Flavia separarsi brutalmente dai suoi attrezzi da lavoro. La sua difficoltà a separarsene, ad accettare questa chiusura definitiva, anche se prevista. Il film si interroga sull’idea stessa del lavoro, il lavoro di tutta una vita: permanenza di passo, per divenire una realtà obsoleta, come gli attrezzi e gli specchi di Flavia, trasportati via. Avrebbe potuto essere un racconto “passatista”, quello del film, un ”era meglio prima”. Non lo è per niente. Alla fine una vecchia signora entra nel negozio ormai in disarmo perché si è persa. Flavia l’accoglie. Lo spettatore si interroga. Chi, ormai, prenderebbe il tempo di interrogarla, di cercarle un indirizzo sconosciuto sull’elenco telefonico, di accompagnarla. Dove si riuniranno le anziane clienti? Chi sarà là per ascoltare le loro parole leggere o gravi? Il film non distilla la visione crepuscolare di un mondo che muore, anzi si oppone alle predizioni catastrofiche sulla solitudine nelle nostre società moderne. Usciamo dal cinema toccati, nostalgici ma felici, dicendoci che forse anche le giovani della squadra di calcio troveranno una come Flavia. Nicchie di resistenza dell’umanità, a Padova e altrove, è sicuro.
Céline Leclère16/01/2007