Note di regia del film Mio Cognato
L’idea di realizzare un film sulla vicenda tragicomica di un uomo cui viene rubata la
macchina nuova si deve ad Alessandro Piva e al racconto ricco di pathos fattogli molto tempo fa da Pino, suo vecchio collaboratore ed amico, circa una propria personale esperienza. Dopo anni di risparmi e sacrifici Pino era riuscito, nella seconda metà degli Anni Ottanta, a comprarsi una macchina nuova e fare così il salto di qualità dalla sua vecchia e scassata Cinquecento ad una Fiat Uno, il modello base. Ancora a poche settimane dal faticoso acquisto, lasciata un giorno la vettura davanti alla scuola nella quale insegnava, Pino al suo ritorno non la trovò più. Resosi conto di averne subito il furto, proruppe in un pianto disperato, da bambino. Affacciatosi sul portone, uno dei bidelli della scuola gli chiese cosa fosse successo, e Pino gli spiegò dell’avvenuto furto. L’uomo, senza battere ciglio, gli chiese le chiavi della macchina e si allontanò dalla scuola. Due ore più tardi, senza neanche capire bene come, ma trionfante di gioia, vide rientrare nel cortile dell’edificio la sua utilitaria, immacolata come l’aveva lasciata; alla guida, naturalmente, il generoso bidello.
Alessandro Piva, colpito dal racconto, pensò a quale itinerario potesse avere compiuto il casuale deus ex machina nel tentativo di ridare il sorriso al disperato insegnante. Non ci volle molto per capire che si era davanti ad un’autentica miniera di storie, ambienti e spaccati sociali.
Soggetto e sceneggiatura di "Mio Cognato" portano la firma di Andrea Piva, Alessandro Piva e Salvatore De Mola. Un primo copione era stato elaborato circa dieci anni fa da Alessandro Piva e Salvatore De Mola, ma vari ordini di problemi ne avevano impedito la realizzazione in pellicola. Nel frattempo i fratelli Piva hanno pensato e realizzato "LaCapaGira", fortunata opera prima che, scritta da Andrea e diretta da Alessandro, dopo l’ottimo apprezzamento di critica e pubblico al Festival di Berlino, ha fruttato tra i numerosi premi il David di Donatello, il Nastro d’Argento e il Ciak d’Oro per la migliore regia esordiente nel 2000.
Ripresentatasi concretamente la possibilità di realizzare il film, Andrea Piva (con la
collaborazione di Alessandro) ha interamente riscritto il copione, soprattutto nello sforzo di adeguarlo alla mutata realtà sociale di Bari, città che negli ultimi dieci anni è molto cambiata. Raggiunta nei primi mesi del 2002, dopo un anno di lavoro, una versione considerata di riferimento a livello di struttura narrativa, il copione di "Mio Cognato" ha dovuto compiere un ulteriore, sostanzioso sforzo di adeguamento alla realtà, confrontandosi più direttamente con lo studio materiale dei luoghi del racconto, il respiro degli attori scelti e - soprattutto - la città in genere, vista come un organismo composito a più dimensioni, spesso comunicanti a malapena tra loro.
Esistono persone, come il Toni Catapano (Sergio Rubini) di questo racconto, cui è concesso passare in scioltezza da un piano all’altro; ce ne sono altre cui il passaggio, seppure possibile, non risulta indolore. Ed è questo, forse, l’assunto principale del film, sintetizzato esemplarmente nella vicenda di Vito Quaranta (Luigi Lo Cascio): un uomo che, lasciate le proprie certezze e seguito lo smaliziato cognato nel sottosuolo della città alla ricerca della propria auto rubata, scopre la pentola a pressione che bolle senza valvola sotto di sé, sotto ognuno di noi.
Individuare il titolo non è stato facile. La scelta finale si è orientata su un titolo non
esattamente accattivante, che anzi mira proprio a mettere in luce di primo acchitto la sotterranea sgradevolezza di questo strano legame di parentela acquisita, ‘legale’, per così dire, come bene evidenzia il suo corrispettivo inglese (Brother-in-law). Si diventa cognati né per scelta né in ultima analisi per sangue, e questa circostanza, come nel caso dei due protagonisti del film, fa spesso sentire il suo peso.
"Mio Cognato" è ambientato nella Bari dei nostri giorni, e le vicende narrate sono, come nello stile dei fratelli Piva, riarrangiamenti e variazioni sul tema di fatti realmente accaduti o dei quali comunque nessun attento osservatore della contemporaneità metterebbe in dubbio la verosimiglianza.
(“Se a volte l’effetto che ne scaturisce è surreale, la responsabilità è da attribuirsi ad un mondo che con sempre maggiore entusiasmo, seppure inconsapevolmente, ciecamente, si fa bretoniano” - Andrea Piva ).
Per di più, lo stile di regia di Alessandro Piva è teso alla reinterpretazione contemporanea di un modo classico di stare dietro la cinepresa, poco incline al movimento di macchina vistoso, o al virtuosismo fine a se stesso, che così soventemente fa passare in secondo piano gli avvenimenti narrati.
Il direttore della fotografia Gian Enrico Bianchi ha concentrato la sua riflessione sulla commistione dei generi propria del film, in bilico tra i toni solari della commedia e quelli ombrosi del dramma. Chiamato a interpretare la notte di una città scura come Bari, con l’uso alterno di neon e luci più brillanti ha reso sapientemente i contrasti che attraversano l’arco del film. Seguendo una precisa richiesta della regia, Bianchi ha costellato gli ambienti di punti di luce, con l’intento di stagliare i personaggi nella profondità dello spazio e di rimarcare un effetto a tratti poco naturalistico e di grande varietà nell’alternarsi dei toni.
La scelta del cast è conseguenza naturale dell’impostazione produttiva del film. Un regista e sceneggiatore, Giovanni Veronesi, la cui fama è legata a numerosi film di grande successo commerciale, sceglie un regista ‘outsider’, Alessandro Piva, per il suo primo film da produttore; quasi un paradosso, al primo sguardo. Ma, forse proprio per questo, sulla strana accoppiata si fonda un tentativo interessante per il nostro cinema bisognoso di novità.
L’individuazione del cast risente di queste influenze incrociate. Da una parte due nomi di richiamo come Rubini e Lo Cascio, dall’altra la varia umanità degli attori del vivaio locale, a dare senso di autenticità all’ambientazione (come Vito Cassano, Dino Loiacono, Vito Carbonara, Enzo Fraddosio). Tra i due mondi mediano alcuni attori pugliesi di consolidata estrazione teatrale, come Gigi Angelillo e Nicola Valenzano, o attrici quali Alessandra Sarno e Carolina Felline, già impegnate tra cinema e televisione, così come Rino Diana, Luca Cirasola e il promettente Antonio Iandolo. Da sottolineare anche il primo ruolo di rilievo per Mariangela Arcieri, nel film la moglie di Lo Cascio, una giovane attrice rivelatasi nel cortometraggio del filmaker Graziano Conversano, “Faiuno”, premiato con un Sacher d’Argento nel 2001. La regia non ha trascurato neanche il serbatoio naturale della città, come nel caso della giovanissima Serena Brancale, rivelatasi un talento naturale, o del pugile Luciano Navarra, quasi costretto a fare il provino dalla moglie (“Tu sei un attore nato, ti prenderanno per forza”) e che si è ritrovato per caso a interpretare brillantemente il ruolo del cocomeraio Tito. Sulla stessa linea anche la scelta nell’uso della lingua, un italiano sincopato di volta in volta da sciabolate di dialetto, che, proprio in quanto alle volte di difficile
comprensione, è risultato utile per la regia a sottolineare lo straniamento del protagonista Vito/Lo Cascio nel suo graduale sprofondamento nel sottosuolo della città. Sottosuolo al quale appartiene l’umanità de LaCapaGira, idealmente compresente al mondo di questo film, e dalla quale proviene la citazione della bisca di Sabino e Pinuccio, interpretati, come se nulla fosse cambiato, ancora da Dante Marmone e Mino Barbarese. I due film si incontrano per un attimo, in un ideale passaggio di testimone; Toni e Vito riprendono subito la loro personale avventura notturna.
Uno stilema, quello dell’uso mirato del dialetto, figlio dell’esperienza “forte” del primo film dei fratelli Piva, film che ha dovuto fare ricorso ai sottotitoli per risultare comprensibile al pubblico nazionale, e che è stato seguito da una lunga serie di esperimenti simili negli anni a seguire.
Alessandro Piva