Note di regia del film "Ballo a Tre Passi"
Vi può essere argomento migliore per descrive la natura e le ambizioni di un film più dell’urgenza di farlo?
Confidando proprio in quest’istinto che ci si augura scaturisca sempre da una tensione autentica mi sono progressivamente convinto che per "Ballo a Tre Passi" non dovesse esserci altra preoccupazione e altra ambizione se non quella di provare a restituire sullo schermo un pezzo di vita vera così come l’avevo vista o vissuta. Ho provato a cumulare questo insieme di emozioni e di suggestioni in una struttura narrativa di tipo “corale”, che non ha evidenti rapporti di causa ed effetto, se non nella contiguità fisica tra alcuni protagonisti, seguendo attraverso il corso di
quattro stagioni, che volutamente coincidono con l’età anagrafica dei personaggi, le “giornate particolari” di Andrea, Peppeddu, Istene, Macangiu, Michele, Francesca e Giorgio, i cui destini oltre che intersecarsi paiono accomunati da una
medesima fatale e ineluttabile condizione di isolamento. Lo sfondo è quello della Sardegna dei miei giorni. Un luogo privato, qualche volta semplicemente vagheggiato, che nasce sempre dall’esperienza personale, quasi sempre riconoscibile seppur rivissuto attraverso la necessaria mediazione di un racconto. Ho infatti conosciuto nelle montagne del Supramonte personaggi “esemplari” come quello di Michele, che nella sua emblematica condizione di ancestrale isolamento, rappresenta probabilmente oggi l’ultimo romantico baluardo di una civiltà, quella della pastorizia nomade e transumante, votata irrimediabilmente all’estinzione. Così come a Desulo, un paese della regione montana del Gennargentu, ho potuto incontrare i bambini che corrono a conoscere il mare, conducendo per conto dell’Istituto Superiore Regionale Etnografico una piccola
inchiesta sui bambini delle zone interne. Vivendo a contatto con loro, sono diventato involontariamente depositario dei loro sentimenti e delle loro aspettative e devo dire che buona parte delle forze per affrontare questo film mi sono venute
ricordando i loro occhi. C’è un cinema che ha dato nobilmente voce a questa umanità, e che oggi porta il nome di Kiarostami, dei fratelli Dardenne e di Amelio, e che si rifà ad una tradizione tutta italiana iniziata da Rossellini e De Sica.
Un cinema che insegue la vita, che attinge verità direttamente dai luoghi che originano il racconto, che rinuncia programmaticamente ad ogni inutile involucro, che fa dell’immediatezza la cifra della sua rappresentazione. A questo cinema, da neofita, ho voluto richiamarmi, rinunciando ad ogni opulenza, ad ogni ricostruzione, ad ogni inutile surrogato scenografico (se non per la scena finale del
film) e, soprattutto, al compromettente peso di una voluminosa macchina cinematografica che avrebbe finito per schiacciare quelle scintille di vita che ho disperatamente cercato di provocare appellandomi a degli interpreti che, nella
stragrande maggioranza dei casi, oltre ad avere le qualità fisiche e morali dei personaggi che interpretano, provengono da un tessuto analogo a quello raccontato.
Salvatore Mereu