Note di regia del film "Terapia Roosevelt"
“
Per l’uomo che non deve chiedere…….Mai!“
Questo era lo slogan di una pubblicità di qualche anno fa che promuoveva un dopobarba “pour l’Homme”, l’uomo vero, tanto per intenderci.
Non so se ricordate, ma era diventato quasi un tormentone, ripetuto spesso ironicamente e con enfasi dai ragazzi, non più giovanissimi, per concludere una discussione in cui desideravano dire l’ultima parola.
Sorridevano, mentre si arrotolavano fra la lingua le parole: “
Uomo…..Chiedere…..Mai….”
Era uno scherzo, simpatico e divertente, e lo slogan veniva utilizzato anche per intendere “…non è vero…io…non sono così….non sono come gli altri…non sono come l’uomo a cui si rivolge quella pubblicità….io non sono un duro…”
Giusto.
Che cosa significa essere “duri”?
Io ho sempre guardato con un certo stupore chi assume atteggiamenti di questo tipo.
Devo confessare che quando, tempo fa, un leader politico di questo nostro paese “meraviglioso” e “sorprendente” gridò, con voce roca e cavernosa “noi ce l’abbiamo duro”, rimasi, davanti al televisore di casa, con la bocca aperta.
Per fortuna ero solo; non c’erano né mia moglie, né mio figlio di dieci anni.
Vi immaginate se mio figlio mi avesse chiesto una spiegazione!
Ho rivisto quel leader politico poco tempo fa, sempre in televisione e sempre in un comizio.
Non credo proprio che, dopo tutte le umane sofferenze patite per la malattia che lo ha colpito, utilizzerebbe il concetto di “durezza” per incitare i suoi elettori.
Per quanto mi riguarda, l’uomo tutto d’un pezzo, dritto come un chiodo, nodoso come un bastone, è soltanto uno stereotipo a cui molti si aggrappano per sentirsi più sicuri, per dimostrare a sé stessi e agli altri che niente li farà barcollare…..”ma quando mai…io non ho paura di nulla…”
Un’ancora psicologica, a volte necessaria, indispensabile ai più, per andare avanti, per continuare a camminare attraverso i sentieri della vita, di una esistenza resa spesso fragile ed incerta da continui e improvvisi temporali da cui è difficile ripararsi e dai quali si esce bagnati fradici, con le scarpe che fanno “….squash….squash….”
Ci si aggrappa a questo stereotipo per salvarsi, per non annegare.
Ma così facendo, senza accorgercene, piano piano dentro di noi muore la parte più preziosa e più bella: la nostra sfera emotiva comincia a diventarci estranea, la vediamo allontanarsi, distante, lassù, come una nuvola che ci guarda dall’alto.
Una bolla di sapone dai mille colori che da un momento all’altro “ Plof…” potrebbe non esserci più.
Le nostre emozioni, mortificate da una vita che non ci appartiene, sono come le corde dell’anima che hanno perso la brillantezza dell’accordo.
Le ingessiamo, le incapsuliamo in armature medievali, pur di nasconderle e non manifestarle.
Certe volte le veliamo. Per lo più le incartiamo, per benino, con la carta stagnola.
In questo modo, siamo sicuri che non si vedono e che non se ne sente neanche l’odore, il profumo.
Ed è così che la maggior parte di noi si comporta, per nascondere una delle emozioni più dolci e più tenere che ci accompagna fin dai primi anni della nostra adolescenza, gli anni dei primi incontri, dei primi amori: la timidezza.
“
Terapia Roosevelt”, il mio primo film, parla proprio di questa intima emozione, con cui la maggior parte di noi convive, e che, con il tempo e l’età, riesce a nascondere e a modificare per paura che gli altri se ne accorgano.
Che sciocchi!
Non ci rendiamo conto che sentire, anche ad una certa età, il cuore che cavalca dentro il petto e il rossore che infiamma le guance rimane un istintivo e primordiale atto di eleganza della nostra anima.
Per fortuna!
Vittorio Muscia