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Intervista a Vittorio Moroni sul documentario "Le Ferie di Licu" - 2


Seconda e ultima parte dell'intervista-racconto al regista Vittorio Moroni, autore del documentario rivelazione del 2007 "Le Ferie di Licu" e nel 2004 del film "Tu Devi Essere il Lupo", distribuiti dall'associazione MySelf.


Intervista a Vittorio Moroni sul documentario
Non ti sei mai sentito inadeguato come Italiano a raccontare una storia così intimamente interna a vicende bengalesi?
Vittorio Moroni: La tua domanda pone, mi pare, due problemi: uno di legittimità e uno di utilità narrativa. La prima questione mi è stata posta molte volte anche in relazione ad altri progetti extraitaliani. Rispondo rivendicando la legittimità per un narratore italiano di raccontare una vicenda bengalese, marocchina, brasiliana, neozelandese… Credo che un narratore abbia di fronte sempre gli stessi problemi etici, qualunque storia decida di raccontare e ovunque questa storia sia ambientata (anche se, certo, le difficoltà e il lavoro di ricerca possono divenire più articolati e complessi). Credo che un problema che ci si deve sempre porre è “da dove narra chi sta narrando?”: è il problema di dare allo spettatore l’opportunità di comprendere la prospettiva dello sguardo del regista. Perché il narratore non è mai astratto e neutrale: racconta a partire da una “postazione” e questa postazione definisce le sue griglie concettuali, il suo sistema di valori, il suo linguaggio, le sue ambizioni, i suoi limiti… Se il narratore si nasconde o finge che la sua presenza non ha condizionato le cose che ha osservato e raccontato, allora è stata messa in scena una bugia. Altrimenti allo spettatore è data facoltà di poter mettere in discussione quanto gli viene raccontato, di coglierne i limiti, le semplificazioni, le forzature. D’altra parte se fosse vero che un regista italiano di 35 anni che vive a Roma non è legittimato a raccontare la vicenda di un ragazzo bangladese che abita nella sua stessa città, perché dovrebbe essere legittimato a raccontare la storia di una donna che abbandona un figlio, oppure la vicenda di un ragazzo siciliano figlio di mafiosi o di un 68enne che ha il cancro al fegato? La lontananza dei mondi e il rischio dell’incomprensione non appartengono di certo solo alla dimensione spaziale, linguistica o etnica. Pertanto o il narratore racconta soltanto se stesso o deve correre il rischio del “salto”. Per venire al secondo punto, l’esperienza di “Le Ferie di Licu” mi ha convinto che possono esserci dei vantaggi nel fatto che un italiano racconti una storia così. La mia curiosità era molto alta e molto ingenua: non sapevo come funziona un matrimonio bangladese e non sapevo quali fossero le aspettative in gioco da parte dei vari protagonisti. Perciò potevo disporre di una meraviglia e di uno stupore che un regista bangladese non avrebbe mai avuto. La mia distanza d’ origine non mi permetteva di dare nulla per scontato e le mie categorie occidentali mi facevano risaltare delle differenze di atteggiamento verso la vita, i sentimenti, gli interessi che diventavano immediatamente importanti per il fatto stesso che a notarli ero io, un italiano di 35 anni.
Infine sono convinto che l’approccio documentaristico ha reso molto più semplici le cose, perché “la realtà” è stata chiamata a fare da argine. Credo che un film -documentario o finzione- sia sempre una “favola” narrata da un narratore, dunque un racconto arbitrario. Tuttavia se penso a come è stato girato “Le Ferie di Licu” mi rendo conto, per esempio, di come è stata più dolce la responsabilità di scegliere i dialoghi del film tra quelli che erano stati pronunciati spontaneamente dai protagonisti anziché doverli inventare, scrivere e far interpretare. Con questo non voglio dire che i personaggi del film non siano in un certo senso stati “reinventati”: reinventati perché fossero veri per davvero (basti pensare a quanto materiale abbiamo girato in 2 anni - più di 100 ore - e a come il film sia una porzione minuscola di questo materiale - solo 1h e 33minuti - in questa sintesi è chiaro che storia e personaggi sono stati reinterpretati e reinventati), tuttavia sono stati plasmati con la loro stessa materia, con il loro linguaggio, le loro espressioni. Alcuni dialoghi del film credo davvero fossero inimmaginabili per uno sceneggiatore. Per esempio quando Fancy arriva per la prima volta a Roma è Andrea, un collega cinese di Licu, ad accompagnare in auto gli sposi dall’aereoporto a casa. Durante il viaggio Licu si lamenta di Fancy con Andrea:
Licu: "Quando l'ho lasciata in Bangladesh era ancora più bella. Adesso è un po' magra, un po' nera..."
Andrea: "Vedrai che tra due mesi il viso si schiarisce".
Licu: "Quando era là era bianca come un'italiana, adesso è nera come me".
Andrea: "E' colpa dell'aereo".
Licu: "Sì, forse è colpa dell’aereo".
Questo dialogo si chiude in un modo assurdo: Andrea dà la “colpa” del colore più scuro di pelle di Fancy all’aereo e Licu gli dà ragione. Dubito che ad uno sceneggiatore potesse passare per il cervello l’idea di attribuire all’aereo questa responsabilità. Spesso, scrivendo i dialoghi, ci si interroga su quale ricaduta una frase può avere sul personaggio che la pronuncia, qual è la funzione narrativa, lo scopo di quella frase: questo lavoro di “contabilità psicologica” difficilmente lascia spazio all’ incredibile, all’assurdo, che pure è una parte di quanto diciamo e ascoltiamo nella vita. Essendo questo dialogo appena citato spontaneamente pronunciato dai protagonisti, ci è sembrato non solo possibile ma straordinario poterlo inserire in montaggio. Le persone a volte dicono cose inimmaginabili.
Nonna Fancy: "Dopo porterai Fancy a Tangail e poi fai come ti pare, l'appendi al soffitto o le fai mangiare il pura barir chomchom..."
Noi cediamo tutti i diritti.

E per le scene ricostruite?
Vittorio Moroni: Anche in quel caso non abbiamo scritto nessun dialogo. Le scene ricostruite riguardavano eventi già accaduti in passato. Perciò le indicazioni che davamo agli interpreti andavano nella direzione di ricordare attentamente la situazione, il contesto, di tornare a quel punto della loro vita, di ricordare gli stati d’animo, le aspettative. I dialoghi venivano di conseguenza. E venivano da loro. Proprio per questo i ciak girati erano 1 massimo 2, dopodiché era impossibile ottenere buoni risultati: subentrava il fattore memoria (anziché ricordare la situazione ricordavano ciò che avevano detto nel take precedente e si insinuava artificio e falsità) e compariva una sorta di insicurezza (perché stiamo rifacendo la stessa cosa? Sto sbagliando qualcosa? Devo simulare altri sentimenti, intonazioni…?). Inoltre anziché abitare quella situazione che cercavamo di evocare cominciavano a pensare a quello che stavano dicendo e facendo. La mescolanza dei due registri (documentaristico puro e ricostruzione) rappresenta naturalmente una scommessa molto rischiosa.

In che modo e in che momento è avvenuta “la scrittura” del film, la trasformazione in narrazione del materiale osservato?
Vittorio Moroni: Se volessimo giocare intorno alla metafora della caméra-stylo di Astruc (e alla utopia della novelle vague per un linguaggio “leggero e sottile”, capace di astrazione, di meditazione e non solo di raffigurazione o narrazione aneddotica) allora direi che il processo di realizzazione di “Le Ferie di Licu” si potrebbe chiamare “camera matita”. E penso ad una di quelle matite che hanno in cima la gomma per cancellare. L’ambizione del progetto era fin dall’inizio quella di fare un documentario su un problema, un documentario con un cuore astratto. Non essendoci una sceneggiatura bisognava mettersi in ascolto della realtà. Non potendo filmare ogni cosa bisognava selezionare quello che sembrava più significativo. Licu sta per telefonare al capo per chiedere le ferie? Intuiamo possano esserci problemi e che quei problemi possano raccontare la sua condizione di sfruttato. Allora decidiamo di girare.
Licu si immerge nel labirinto della burocrazia per chiedere un permesso? Immaginiamo possa dire la sua faticosa condizione di immigrato. Giriamo. Licu passa ore e ore a cercare di comprare i mobili per organizzare la camera dove lui e sua moglie vivranno? Sembra importante per dire su quale equilibrio incredibile debba muoversi tra scarsi mezzi e voglia di stupire Fancy. Giriamo. Va al bar dove si riuniscono gli immigrati a fare il tifo per la Roma? Giriamo. Cena in cucina con gli altri 7 che abitano con lui? Giriamo. Ogni volta che si gira qualcosa si sta lì in ascolto e in attesa di quello che viene, tuttavia il cuore è già pieno di aspettative, si immagina che quella scena sarà un tassello in più capace di dire qualcosa che noi sappiamo (o intuiamo) di Licu, ma che ancora non è finito dentro la nostra rete da pesca e perciò il nostro spettatore non può sapere. Cerchiamo di non forzare le cose a dire ciò che vorremmo, ci teniamo pronti a ricevere l’inaspettato, ma in cuor nostro immaginiamo il posto che quel tassello potrebbe avere nel mosaico. Ho rimasticato tante volte una frase di Bresson: “girare vuol dire andare a un incontro. Niente nell’inatteso che non sia atteso segretamente da te.”
Poi, a breve distanza, si va in montaggio. Con Marco cerchiamo di estrarre dal nuovo materiale girato un distillato, lo mettiamo a contatto con le altre scene, cerchiamo di capire quale mistura di sapori e significati si è creata. E ci accorgiamo che a volte le cose non significano quello che ci si aspetterebbe da loro. Il montaggio diventa così il vero momento della scrittura, il luogo dove, soffertamente, si decidono i pesi. Il mosaico cambia in continuazione, tasselli che si erano immaginati fondamentali vengono buttati. Cose belle e interessanti rischiano di far perdere il fuoco, il cuore del film, allora, dopo essere state montate con attenzione, tempo e fatica vengono accantonate. Tutto è sempre scritto a matita e la gommina inesorabilmente passa e cancella. Per poter girare un film in questo modo bisogna avere la massima libertà possibile, essere coscienti che per avere un distillato bisogna poter “sprecare” tantissimo. E, naturalmente, non c’è verbo più odioso e ributtante per i metodi organizzativi del cinema industriale tradizionale.

Ci sono modelli ai quali ti sei ispirato?
Vittorio Moroni: Alcuni consapevolmente e molti, credo, inconsapevolmente.
Un’ esperienza a cui ho sempre guardato con grande interesse è “Diario di un Maestro”, una serie televisiva girata negli anni 70 da Vittorio De Seta. E’ la documentazione del percorso didattico fatto da un attore-insegnante durante un quadrimestre presso una scuola elementare di una borgata romana con alunni cosiddetti problematici e molto maldisposti verso la scuola. La prima volta che ho visto quel film ho trovato illuminante il rapporto tra narratore e realtà. Il narratore non si limitava a spiare la realtà, ma interveniva provocandola potentemente e la realtà si mostrava e parlava di sé proprio grazie a quell’intervento. Tuttavia la macchina-cinema era come dimenticata. La troupe (insegnante, operatore, fonico, regista) era lì, in mezzo alla classe, davanti agli alunni, ogni giorno, tanto costantemente davanti ai loro occhi da diventare trascurabile. "Note sul Cinematografo" il “breviario” di Robert Bresson sul suo modo di ripensare radicalmente il cinema è stato un appiglio a cui aggrapparsi nei momenti di dubbio e di sconforto, ma anche uno stimolo continuo per cercare di evitare le strade più convenzionali. Il cinema dei Dardenne è una sorta di bussola per capire a quale distanza porsi dai propri personaggi quando l’oggetto della rappresentazione è un problema etico, la possibilità di “bene e male” che si esprime attraverso le azioni o le passività dei personaggi.

Nonostante “Le Ferie di Licu” sia un film intimo, girato in digitale, il formato dell’immagine è molto simile a quello panoramico dei kolossal hollywoodiani.
Vittorio Moroni: E’ stata un’intuizione di Marco Piccarreda. Prevedendo che il film sarebbe stato necessariamente accompagnato da molti sottotitoli l’ idea era di sacrificare una porzione orizzontale del fotogramma creando uno spazio nero sotto l’immagine dove poter comodamente ospitare i sottotitoli. Un formato così allungato consente di creare una forte tensione tra le estremità dell’immagine e di far risaltare tutto ciò che sta lontano dal centro: ci sembrava che quelle proporzioni si adattassero bene a raccontare una storia così intima, fatta di facce, di persone che si guardano, che si parlano…

Quanto i protagonisti e gli eventi sono stati condizionati dalla vostra presenza?
Vittorio Moroni: Lungo tutte le riprese del film ho cercato di non intervenire nella vita di Licu prima e di Licu e Fancy poi, di non favorire o ostacolare i processi, di non dare consigli, di non fare del documentario il documentario che raccontasse la storia di due bangladesi condizionati da un italiano… Ciò non toglie che certamente la nostra presenza ha in parte condizionato le cose, anche se ho la sensazione che il fattore tempo e la quantità di problemi pressanti che i protagonisti hanno dovuto affrontare abbiano attenuato di molto il peso della nostra influenza.

Il film ha avuto e avrà effetti sulle loro vite?
Vittorio Moroni: Temo di sì e spero di sì. Da tre anni e mi pongo ogni giorno questa domanda e naturalmente non conosco fino in fondo la risposta. Licu è stato consapevole fin dall’inizio che il lavoro che stavo facendo intorno a lui sarebbe un giorno stato un film visto da un pubblico, ma ero molto nervoso pensando al grado di sorpresa che lo attendeva vedendo il film. Licu e Fancy hanno visto il film la prima volta insieme a me in dvd e mi è parso che si siano riconosciuti.
Credo sia difficile per chiunque vedersi rappresentati: l’immagine che abbiamo di noi stessi è significativamente diversa da quella che hanno di noi le persone che ci frequentano. In questo caso lo scarto è potentemente amplificato dalla distanza di codici culturali e persino estetici che ci sono tra me e loro.
Eppure la loro reazione è stata positiva, come se avessero a che fare con la loro memoria resa più nitida e narrativa. Le difficoltà che il film descrive nell’ultima parte sono ostacoli che conoscevano bene, di cui erano in una certa misura coscienti, anche se il film ha rivelato a ciascuno dei due cose dell’ altro che non sapeva o non sapeva in modo così chiaro (Fancy è stata esclusa da tutte le riunioni preliminari al matrimonio, le ha viste lì per la prima volta; Licu non sa davvero cosa sia un pomeriggio di Fancy mentre lui è al lavoro). Certo è anche accaduto che il significato che per me certi fatti assumono nel film è diverso da quello che Licu e Fancy hanno attribuito loro.
In un certo senso è come se avessero visto per la prima volta quei due anni e mezzo attraverso delle nuove lenti. Ho la speranza che questo film possa essere importante non solo per i bangladesi che attualmente vivono in Italia, ma per i loro figli. Se sarà ancora possibile vedere questo film fra una decina d’anni sarà forse una traccia per i figli nati e cresciuti in Italia del percorso fatto dai loro genitori: da dove sono venuti, attraverso quali esperienze sono passati…

Questo film sembra molto diverso dal tuo film d’ esordio: “Tu Devi Essere il Lupo”.
Vittorio Moroni: “Tu Devi Essere il Lupo” era un film a piccolo budget, eppure, nonostante la troupe non fosse enorme e “l’apparato cinema” non fosse monumentale, ho risentito di tutte le conseguenze negative di quel modo di fare cinema: i tempi stretti, la costrizione a pre-determinare ogni cosa, l’inevitabile predisposizione a limitare ogni imprevisto, sorpresa, mutamento del significato delle cose…
In questo senso “Le Ferie di Licu”, che è un film a bassissimo budget, è stato un sogno (per quanto a volte anche un incubo): la possibilità di raccontare mettendosi in ascolto della realtà, senza limiti di tempo e senza limiti di ripensamento; il sogno di un film senza sceneggiatura, l’esperienza di conoscere qualcosa nel momento stesso in cui la si racconta. Naturalmente girare in questo modo implica immaginare continuamente lo sviluppo degli eventi, fare delle ipotesi, andare azzardatamene nella direzione ipotizzata e poi scoprire che la realtà si oppone a quell’ipotesi e ti propone un’altra traiettoria, ti interroga, ti chiede di ripensare tutto da un punto di vista che non avevi preso in considerazione. Allora bisogna rinegoziare i significati, i pesi narrativi, ascoltare, accettare che le cose siano più sfumate e più ambigue, cercare di essere più esatti, trovare un nuovo equilibrio, lasciar risuonare domande invece che affermare risposte… E’ una disciplina estenuante che toglie il sonno (non sai mai se arriverai da qualche parte e senti che prima o poi i tuoi protagonisti, stanchi di essere osservati, ti abbandoneranno con un film monco e sconclusionato). Il primo giorno in cui ho visto “Le Ferie di Licu” proiettato al cinema davanti a un pubblico ho creduto che si fosse avverato un piccolo miracolo.

Malgrado le diversità credi vi sia qualcosa di comune tra il “Lupo” e “Licu”?
Vittorio Moroni: Un critico ha scritto che i due film sono molto più simili che diversi, anzi lo stesso film con due maschere differenti. A me piace che in ogni caso siano due esperienze e due lavori dai presupposti così diversi. Se qualcuno ravviserà qualcosa di comune allora vorrà dire che li lega quel denominatore che si chiama stile, che poi non è altro che la cifra della propria sensibilità. Ma non è qualcosa di cui mi voglio preoccupare razionalmente. Un giornalista, non ricordo più chi, una volta, consigliando un giovane collega, ha scritto: “Scrivi un pezzo di sport, uno di cronaca e uno di politica e non firmarli. Se i lettori riconosceranno che dietro ci sei sempre tu, quel giorno saprai di avere uno stile”.

Tu Devi Essere il Lupo” fu auto-distribuito grazie all’ invenzione dell’ associazione MySelf e all’impegno di attori e autori; ne parlarono i giornali, i media, fu argomento di tesi universitarie: è stato un esperimento disperato e al tempo stesso fortunato, preso in considerazione ed imitato. E’ grazie alla stessa modalità che “Le Ferie di Licu” ha trovato la via delle sale?
Vittorio Moroni: Di fronte alle solite risposte dei distributori: “Molto bello, ma abbiamo il listino pieno”, “Davvero bello, ma i documentari in sala non funzionano” credevamo non ci si dovesse arrendere. Si è scelto un progetto in cui credere proprio per avere la forza di affrontare tutta la fatica che ci attendeva (sale non disponibili, necessità di investimenti pubblicitari, concorrenza formidabile, fare un lavoro - il distributore - che non è quello che immaginavo di fare alla scuola di cinema...). “Tu Devi Essere il Lupo” sopravvisse per mesi nelle sale grazie al tam-tam del pubblico, contro ogni previsione di produttori, distributori e addetti ai lavori. Con “Le Ferie di Licu” siamo stati pronti a scommettere di nuovo ed è andata anche meglio. La 50N, che è la società che abbiamo fondato e con cui abbiamo prodotto il film, si è occupata anche della distribuzione. E’ stata durissima, ma eravamo pieni di idee e di entusiasmo. Prima che il film uscisse siamo stati in giro per l’Italia per due mesi a fare feste, incontri, raccontare del nostro film, mostrare i trailer, raccogliere spettatori disposti a fare una donazione in cambio di un biglietto del film, abbiamo convinto gli esercenti che il film aveva un pubblico ancora prima di avere le sale e siamo usciti in 7 copie, in 7 città, per cominciare. Il pubblico, quel pubblico straordinario e trascurato che esiste e che è assetato di cinema indipendente e che sa proteggerlo e difenderlo col tam-tam ancora una volta ci ha commosso, rendendo possibile che il film restasse in sala 6 settimane a Roma, 5 a Milano, 5 a Torino… e che potesse cominciare con le sue 7 copie il giro d’Italia. I critici ci hanno sostenuto con passionale unanimità e “Le Ferie di Licu” ha così potuto esistere. Come sempre, contro le aspettative degli addetti ai lavori. Quello che abbiamo in mente di fare ora è una tournee: il “Licu Tour 2007”. In un momento storico in cui la sala cinematografica viene data sulla inesorabile via del tramonto, con gli spettatori in calo e i film che non escono o escono solo in dvd, io voglio rendermi disponibile (lungo un arco di tempo di 6 mesi) per andare in qualunque cinema di provincia che lo desideri per incontrare il pubblico, raccontare l’ esperienza del film, ascoltare domande, osservazioni, critiche… Insieme a Marco Piccarreda e Stefano Mancini stiamo organizzando un camper che sarà la nostra casa ambulante, oltre che la testimonianza di quanto importante è per noi il nostro film. Contiamo su quella enorme e straordinaria rete di cineforum, circoli, rassegne che hanno un pubblico affezionato e motivatissimo, capace di amare anche piccoli film come il nostro, spettatori a cui vogliamo rendere omaggio e che vogliamo valorizzare. Con quel pubblico ci sembra di avere una cosa in comune: un amore ostinato per il cinema.

15/10/2007, 10:44