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Note di produzione del documentario "Non Tacere"


Note di produzione del documentario
Fabio Grimaldi sul set di "Non Tacere"
Don Roberto Sardelli nasce nel 1935 a Pontecorvo, nella bassa Ciociaria.
Oggi abita al terzo piano di un palazzo di via Prenestina a Roma. Nel 1960, dopo aver lasciato una vita agiata e un lavoro sicuro in banca, entra in seminario a Roma dove viene ordinato sacerdote nel 1965.
Da subito è chiara la sua vocazione nell’impegno a fianco di poveri ed emarginati: sarà la missione che lo accompagnerà per tutta la vita nella ferma convinzione di dare il più alto significato al messaggio di Cristo.
Nel “sessantotto” sceglie di lasciare la parrocchia di San Policarpo, nel quartiere Tuscolano per andare a vivere con i baraccati dell’Acquedotto Felice. Seicentocinquanta famiglie hanno vissuto all’acquedotto fino al 1974, anno in cui il Comune assegnò loro le case. L’agglomerato iniziava a nord di Porta Furba, dove le baracche edificate sotto gli archi si congiungevano con quelle del Mandrione fino ad arrivare all’altezza di Cinecittà. Il primo problema da risolvere era quello scolastico, visto che i ragazzi che vivevano nelle baracche spesso venivano messi nelle classi differenziali. Queste venivano ricavate da specie di scantinati dove il preside della scuola metteva ad insegnare i professori peggiori.
Le sue idee, la sua fede, la sua missione di educatore, lo portano ad una dedizione costante al fianco degli “ultimi” che spinge con passione allo studio, all’impegno, alla lotta per il riscatto dal bisogno e dall’emarginazione.
ll film vuol raccontare le storie di vita di Don Roberto, e le vicende, a dir poco straordinarie, della “scuola 725”, che egli fondò nel ‘68 a Roma tra i braccati dell’Acquedotto Felice. Il nome della scuola fa riferimento al civico della baracca che la ospitava.
La scuola 725 non aveva la pretesa di sostituirsi a quella di Stato ma di tentare di supplire alle sue imperdonabili carenze. Don Roberto non si limitava ad aiutare i ragazzi “a fare i compiti”, ma a dar loro gli strumenti culturali necessari ad affrontare la vita.
La 725 divenne un vero e proprio laboratorio di sperimentazione d’una nuova didattica e d’un nuovo modo di stare insieme per imparare.
Quella esperienza produsse una vasta eco, suscitando l’entusiasmo delle persone più sensibili e tirandosi dietro, però, la feroce critica della Curia, dei partiti conservatori e dei “benpensanti” che videro nel prete un cattivo maestro, un sovvertitore delle coscienze dei ragazzi.
Sardelli insegnava ai ragazzi a vivere ma anche a disobbedire svergognando le contraddizioni del potere.
Criticato per le sue fughe in avanti, guardato con diffidenza da molti, non sembrava preoccuparsi troppo dell’isolamento. Per i suoi baraccati voleva cultura e concretezza: nello scollamento materiale e morale del baraccamento la disciplina era indispensabile per dare forza ai ragazzi e prepararli alla vita.
Il prete non parlava solo di giustizia divina, ma di giustizia sulla terra, sollecitando i ragazzi a rivendicare dignità e diritti. Nella scuola si leggeva di tutto, dal Vangelo, ai quotidiani, dalla biografia di Malcom X a quella di Ghandi, si affrontava ogni genere di discussione, si parlava di tutto, anche di politica
“La scuola non può non essere politica – sosteneva Don Roberto – perché solo così essa diventa strumento di educazione per tutti. Non dobbiamo separare la scuola dalla vita di questi ragazzi, ma cercare tra di loro i nessi profondi che vi sono. Le parole nascono dall’esistenza e da questa assumono il loro significato che diventa chiaro nella misura in cui l’adesione della parola alla vita si fa piena. Le parole ci servono per lottare”
Don Roberto ha una visione assolutamente nuova ed innovativa della formazione dei ragazzi. Con la scuola 725 vuole colmare le imperdonabili lacune ed i ritardi della scuola di Stato, ma vuole “andare oltre”: sa che deve preparare gli allievi alla vita e alle dure prove che li attendono, sa che gli emarginati devono gridare più forte per avere la possibilità di essere ascoltati. Don Roberto vuole che i ragazzi rivendichino con orgoglio le loro umili origini, le loro culture d’appartenenza, vuole che prendano coscienza della loro condizione per liberarsi dalla paura e dal bisogno per affermare con coraggio la propria dignità. I libri che legge con i suoi ragazzi devono essere “straordinari strumenti di crescita” e non decorazioni.
La scuola 725, pertanto, è dura, molto impegnativa, non lascia spazio alla divagazione, alla ricreazione. I ragazzi della 725 devono essere più bravi degli altri, devono imparare a lottare per migliorarsi, per evitare d’essere relegati in una condizione d’esclusione e di sfruttamento.
Don Roberto è un prete scomodo che spesso balza agli onori della cronaca per le sue scelte coraggiose. Le sue parole e le sue azioni alimentano roventi polemiche con il potere politico ed ecclesiastico, verso cui - animato da un’incredibile passione cristiana e civile - spesso si scaglia, contestandone abusi, omissioni ed ipocrisie.
Don Roberto si fece anche promotore della lotta per la casa e partecipò con i baraccati al movimento che occupava le case sfitte edificate dagli speculatori edilizi, quei “ palazzinari ” divenuti famosi per il “sacco di Roma”, lo scempio edilizio perpetrato per fini speculativi ai danni della città con la commistione di partiti politici e Curia Romana.
Il grave problema della mancanza di alloggi d’edilizia popolare a Roma, diede lo spunto a Don Roberto ed ai ragazzi della scuola 725 di scrivere una lettera di denuncia al sindaco di Roma, sul modello della “lettera ad una professoressa” di Don Milani, che così iniziava: “Noi mandiamo questa lettera al sindaco perché è il capo della città. Egli ha il diritto ed il dovere di sapere che migliaia di suoi cittadini vivono nei ghetti. Nella lettera abbiamo voluto dire una sola idea: la politica deve essere fatta dal popolo ”.
La lettera oltre a rappresentare una dura denuncia delle condizioni disumane in cui erano costrette migliaia di famiglie, conteneva il segno distintivo del pensiero di quel prete ribelle, che non perdeva occasione per indicare agli “ultimi” la via della lotta per il riscatto sociale e per l’affermazione della dignità. La lettera, come tutte le iniziative di Don Roberto, fece discutere ed il prete venne additato, come al solito, quale sobillatore ed istigatore dell'odio di classe.
Da questi suoi pensieri scaturiva la natura più vera del pensiero di Don Roberto, la sua fede più autentica, il suo straordinario muoversi nel mondo con coerenza rispetto alla parola di Cristo.
Moravia, Giovanni Berlinguer, Pier Paolo Pasolini bazzicavano per i baraccamenti ove Don Roberto dormiva ogni notte, ma a loro mancava l’esperienza diretta, il coinvolgimento assoluto e la dedizione che aveva il prete. Anche i giovani della cosiddetta sinistra rivoluzionaria frequentavano quei luoghi, spesso con un atteggiamento assolutistico ed ideologico.
Don Roberto, che portava Moravia e Berlinguer per il Mandrione, sapeva che se non si fosse riusciti a costruire un movimento culturale attorno alle baracche, non ci sarebbe mai stato un reale cambiamento. Lui, già alla fine del ’68, denunciava il fatto che la gente delle baracche e delle borgate si sarebbe omologata, intravedeva i guasti che si sarebbe determinati in chi senza strumenti culturali adeguati sarebbe stato “risucchiato” dalla società dei consumi. Quando caddero le giunte di sinistra dopo l’80, fu perché le borgate iniziarono a votare a destra. D’altra parte, fu proprio con le prime giunte di sinistra che Roma iniziò a trasformarsi in un’autentica metropoli.
Don Roberto durante quegli anni, con altri preti che operavano anch’essi nelle borgate, scrisse una lettera alla comunità cristiana di Roma nella quale si denunciava l’amministrazione capitolina, in pratica la Democrazia Cristiana. La Chiesa, in effetti, non poteva più far finta che i baraccamenti non esistevano. Grazie anche a questa lettera detta “dei tredici” - dal numero dei preti che la sottoscrissero - si arrivò al congresso del ’74 sui “mali di Roma”, organizzato dal Cardinal Poletti, in cui vennero denunciate quelle vicende, e la DC si spaccò in due.
Proprio quel congresso e la crisi della DC, ebbe come conseguenza l’ascesa, per la prima volta dal dopoguerra, delle sinistre al governo della capitale. Dietro Don Roberto c’era il movimento romano per la casa, buona parte del Partito Comunista, ma soprattutto gli intellettuali.
L’esperienza di Don Roberto e della scuola 725, avrà termine con il trasferimento dei baraccati dall’Acquedotto Felice alle case popolari del quartiere Nuova Ostia.
Lo sguardo dell’autore viaggerà tra le evocative immagini di repertorio che raccontano quegli anni (e quella Roma), e le riprese dell’oggi. La macchina da presa seguirà Don Roberto ed alcuni ex allievi, in quella Roma sottoproletaria ora scomparsa e dimenticata. A distanza di trent’ anni si rivedranno i luoghi, spesso irriconoscibili, teatro di quelle esperienze ormai lontane. Sarà l’occasione per rintracciare una memoria preziosa, ricca di storie ed eventi a molti sconosciuti.
Durante il viaggio sarà inevitabile incontrare l’odierna periferia con i nuovi emarginati, con i nuovi esclusi e, sorprendentemente, con nuovi baraccati.
Nel documentario non ci sarà solo il racconto di una storia lontana seppur molto significativa, oggi, nel 2006, Don Roberto dopo più di trent’anni rincontrerà i suoi ex allievi della 725 a Pontecorvo, in Ciociaria, nel convento dove il prete portava gli stessi allievi a trascorrere le vacanze estive. Sarà un momento intenso e pieno di spunti di riflessione. Li il prete ed i suoi ex allievi daranno vita ad un tentativo straordinario: scrivere, a distanza di trent’anni, una nuova lettera sui mali di Roma e del mondo. Don Roberto proverà poi a far arrivare questa lettera al sindaco di Roma, proverà ad incontrarlo per dialogare con lui, per capire se ancora oggi c’è spazio per la sua idea di giustizia e uguaglianza sociale.
Tornando alle vicende storiche, i baraccati dell’Acquedotto Felice, dopo anni di vergognosa attesa, furono trasferiti nel ghetto di Nuova Ostia: un quartiere di palazzoni, disumano e violento; per essi non finirono i problemi anzi ne nacquero di nuovi e più drammatici, perché il problema dei marginali non si risolve ponendo tra loro ed il paesaggio urbano qualche chilometro d’asfalto e qualche metro di cemento. Ecco come Sardelli concludeva la sua opera “In Borgata” dopo quel traumatico cambiamento: “ma ora dobbiamo dare il bando al lamento. Dobbiamo riportarci alla vita, al lavoro, alla speranza, allo studio, al pensiero, alla creazione, alla partecipazione. O noi nelle scuole, nelle sedi dei partiti e dei sindacati, nei centri religiosi e sociali, in un grande sforzo comune, riusciremo ad elaborare un progetto per il futuro o dovremo piegarci davanti al dominio dell’omertà, della sfiducia, della banalità e del grigiore. Dobbiamo ricomporre i frammenti dispersi della fiducia”. Ma capita spesso di indugiare su questi pensieri. Allora vedo, come un susseguirsi di familiari immagini, i volti dei ragazzi della “725”. Essi portano il segno di un’umanità disgregata e dispersa, eppur capace di trovare in se stessa la forza di affermare davanti a tutti il valore del servizio dell'’uomo”.
Ed ecco come in appendice al testo “In Borgata” concludevano i ragazzi della scuola 725: “L’aquedotto Felice, sia per la collocazione geografica sia per composizione sociale, era un ghetto. L’emarginazione in cui la città ci aveva messi si viveva ogni giorno sulla nostra pelle. La vivevano le nostre madri, da quando andavano a fare la spesa e quando andavano a “servire”. Così i nostri padri in cantiere e noi nella scuola pubblica. Conoscendo questo atteggiamento noi cercavamo di camuffarci e ricorrevamo ad ogni genere di bugie pur di non ammettere che abitavamo nelle baracche.
Con la scuola 725 noi trovammo la forza consapevole di dire a tutti chi realmente eravamo, senza più paura. Fu come uscire da un lungo periodo di clandestinità.
Oggi l’acquedotto Felice non esiste più, molti di noi guardano alla vita trascorsavi con un certo rimpianto per ciò che abbiamo perduto. Ma ci portiamo dietro la ricchezza di un’esperienza che non ci consente di vivere nel rimpianto.
Guardiamo in avanti. Ciò che abbiamo fatto ci sollecita all’impegno perché nella nostra società scompaiano le “parti gelate” e tutti si sia messi nelle condizioni di dare il meglio di se stessi”.
L’obiettivo è di riappropriarsi di una memoria che rappresenta per tutti noi un patrimonio prezioso da non disperdere, anzi indispensabile per riflettere sulla direzione che sta prendendo la nostra civiltà. Il film Potrebbe essere un punto di riflessione sul senso di smarrimento, su un vuoto esistenziale che realmente stiamo vivendo. Certe riflessioni d’un tempo potranno apparire nella loro universalità, nel loro immutato valore, così come i ragionamenti e le domande dei ragazzi della scuola 725, che riascoltate oggi appaiono piene di verità e una forza immutata nel tempo.