Note di Andrea Papini sul film "La Velocità della Luce"
Come è Nato il Soggetto
L’idea è nata in occasione dei miei tanti viaggi tra Milano a Roma, negli anni che vedevano comparire i primi telefonini. Osservavo le altre automobili e mi domandavo chi potesse essere alla guida ora di questo, ora di quell’altro mezzo. Che faccia potesse avere quel guidatore di Mercedes, o quell’autista di camion. Non ci si immagina quasi mai l’altro in momenti diversi da quello che stiamo vedendo. Pensavo, per esempio, chissà che faccia aveva da bambino questo autista di camion dall’espressione patibolare... Volevo descrivere la distanza, fisica ed emotiva tra i protagonisti partendo da due automobili, utilizzate nella valenza simbolica di corazze, fino ad arrivare lungo la narrazione, al contatto fisico: dalla pelle metallica alla pelle reale. Quelle scatole che contenevano altri esseri viventi in viaggio nella mia stessa direzione mi sembravano interessanti metafore per parlare della realtà. E l’autostrada, con il suo mondo di addetti e servizi a tutti ben noto, fabbrica disposta lungo linee che abbracciano gli stati e le culture, poteva fungere perfettamente come elemento necessario per permettere allo spettatore di identificarsi nel racconto cinematografico.
L’Idea Artistica
Mentre i pensieri si sviluppavano il viaggio procedeva inarrestabile, quasi rappresentasse esso stesso la direzione – irreversibile – del tempo. Nacque così l’idea di lavorare su più livelli, simbolici e reali, per parlare della ricerca dell’assoluto, e della conseguente infelicità. Della banalità del male legata all’impossibilità di amare. Di due protagonisti in perenne migrazione volontaria, per sfuggire all’identità fissata dai luoghi e dal tempo.
Poi il soggetto si è sviluppato prendendo una serie di pieghe strane e molteplici, che con lo sceneggiatore Gualtiero Rosella abbiamo cercato di mantenere in equilibrio. Ci ha accompagnato la volontà di lavorare sull’uso ambiguo delle parole pronunciate dai protagonisti, sempre mezze vere e mezze finte, scollate dalla realtà come spesso succede oggi. Ma trasmesse alla velocità della luce, come dice il titolo del film. "
La Velocità della Luce", che a quanto si sa fino ad ora, non può essere superata se non nell’universo dei numeri immaginari.
La Struttura e i Personaggi
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La Velocità della Luce parte così da un’iperbole narrativa per indagare la realtà. Una semplice struttura noir a tre – il ladro d’auto ipocondriaco, l’ambiguo chirurgo, la giovane telefonista – si propone di approfondire ancora una volta le zone grigie dell’animo umano.
La messa in scena vuole ipnotizzare lo spettatore con un complesso lavoro sulle luci e sulle voci degli attori, consentendo in questo modo di veicolare di nascosto informazioni e temi più complessi.
I dialoghi tra i personaggi, sfuggenti, dai contorni ambigui, a brandelli come nello stile di tante nostre conversazioni, si svolgono all’interno di quelle arterie moderne che sono le autostrade, lungo le quali il tempo sembra dilatarsi e predispone ad una maggior curiosità e disponibilità verso il mondo e le sue voci nascoste.
Mario, il protagonista, giovane tecnologico, reso fragile da banali nevrosi (la claustrofobia e l’ipocondria che scattano quando qualcosa non va secondo il previsto), incontra lo sconosciuto Rinaldo viene subito attratto dalla sua sicurezza. Quest’ultimo è talmente inaridito dai traumi della vita, simbolicamente rappresentati dalle cicatrici sul corpo e dalla protesi d’acciaio al posto di una gamba, che risulta insensibile a tutto. Quest’uomo anziano ma ancora affascinante vorrebbe fermare il tempo, o almeno trovare un ordine a un passato impersonificato da un amore di tanti anni prima. Vorrebbe bloccare la propria decomposizione fisica, accelerata da un esperimento chimico effettuato in gioventù. Esperimento che lo costrinse ad allontanarsi dalla donna amata. E per fare ciò compie, come un ragno che tesse la sua tela, quelle azioni – violente – che gli permettono di sopravvivere.
I personaggi di questa storia compiono gesti paradossali, al limite della realtà, ma si muovono in un mondo conosciuto (l'autostrada, gli autogrill, i ristoranti, l'albergo), utilizzano oggetti di uso quotidiano e familiare (le automobili, il telefono), lavorano. Beatrice, spalla e poi motore narrativo della storia (è a causa sua che Mario finisce nella trappola di Rinaldo, diventando vittima del proprio stesso gioco), è ben conscia della ambiguità delle sue emozioni, attratta contemporaneamente da entrambi gli uomini.
Tutti e tre hanno nella memoria l'idea di qualcosa di meraviglioso andato perduto. Non sanno che la separazione tra loro li spinge a ricercare anche attraverso la violenza una via di uscita - disperata - a questa condizione di solitudine obbligata, rotta solo per pochi istanti negli attimi dell'amore.
E' proprio qui, nella memoria di una perfezione perduta, esiste il riscatto all'orrore. Riscatto che ha lasciato il suo segno malinconico e struggente nella dolcezza dei paesaggi, nella profondità delle voci, nella sensibilità dei tre protagonisti, nella soavità delle musiche che accompagnano questa storia di impossibilità. Solo l’umorismo nero della chiusa, affidato ad un cinico Jodel tirolese, ci permetterà di sorridere amaro sui limiti delle nostre emozioni.
Andrea Papini