Note di regia del documentario "I Cercatori di Miraggi"


Note di regia del documentario
Quello che si cerca di raccontare è la fortissima spinta alla vita che anima gli uni e gli altri, in contrapposizione con il senso di vuoto e di afasia esistenziale sempre più radicato nel nostro mondo. Il film racconta la voglia di riscatto, sia esso fisico o morale e vuole rappresentare un invito alla riflessione, non un’inchiesta o un reportage televisivo.
Nel primo caso si tratta di cooperanti ‘autonomi’, laici, italiani, per i quali l’emigrazione in Africa, temporanea o definitiva, è vissuta come una terapia al mal di vivere occidentale. Essi ci rivelano, attraverso schegge di vita e di pensiero, le istanze etiche e morali che spingono le persone a dedicare parti importanti della propria esistenza ad aiutare i più sfortunati del pianeta assumendosene in toto il peso e i rischi. Con gli immigrati invece si cerca di scavare nella speranza tout-court, nei difficili bilanci tra aspettative realizzate e disilluse realtà, nelle motivazioni che costringono ad affrontare torture fisiche, psicologiche e morali inenarrabili per cercare un’improbabile emancipazione in Occidente, nei meccanismi di ingranaggi che trasformano sogni di speranza in trappole senza ritorno, nelle difficoltà dell’integrazione e della sorpresa di scoprirsi all’improvviso ‘nero’, nella forza interiore necessaria a sopportare rapporti familiari forzatamente distanti, di mogli e madri separate dai figli.
Sullo sfondo resterà la perpetua condizione di mancata emancipazione dell’Africa nonostante gli sforzi degli aiuti occidentali, intercalata alle riflessioni degli Africani inevitabilmente ‘contaminati’ dall’Europa, che hanno dato vita ad un nuovo ‘ Terzo Mondo collettivo ’ fatto di associazionismo ed integrazione sul nostro territorio.

Parte della colonna immagini del documentario ha una grafia visiva estremamente astratta, giocata su sfocature, dettagli di difficile lettura, sfumati, anche estranei al nucleo specifico degli argomenti, ma funzionali ad un più profondo coinvolgimento emotivo dello spettatore. Non sarà concepita come “immagini a copertura”, ma come veicolo per separare voci e corpi, interiorizzare contenuti, rendere simbolico il qui e ora dei racconti.
Anche per questo le interviste sono fatte in luoghi appartati, anomali, naturali.
Si incrociano molte voci, non c’è una storia di una persona, ma tante schegge di esperienze diverse che vanno a fondersi in due approcci alla vita: la speranza e la disperazione, ambedue visti dall’uomo africano e dall’uomo europeo.
Le interviste ai bianchi fatte o in luoghi significativi della loro esperienza o in campagna in luoghi particolari, da picnic sotto grandi alberi. Le interviste ai neri girate in campagna in luoghi particolari o in luoghi in rapporto alle loro attività: davanti a ruderi di abitazioni, nei centri commerciali o sulla spiaggia.
Tutte interviste ferme, classiche, macchina a cavalletto, vari campi sull’intervistato di primo piano e mezzobusto oppure, totali campo lungo e lunghissimo con il regista. Il regista a volte è in campo a due ma preferibilmente di spalle e in campi lunghi. Non interessa il classico campo/controcampo presenzialistico da intervista televisiva.