Note di regia del film "Modo Armonico
Semplice (L'Asilo di un Maestro)"
In una ipotetica terra di mezzo della possibile ricerca e sperimentazione dell’audiovisivo, il lungometraggio “
Modo Armonico Semplice (L’Asilo di un Maestro)” si pone al limite tra cinema e televisione, film-articolo e film-saggio, finzione e documentario, tradizione e ricerca, ma anche tra apprendimento e insegnamento, infanzia e adulti, vita e morte. I bambini sono protagonisti, come raramente capita nella realtà (se si esclude certa fiction anche pubblicitaria), ma l’opera è destinata soprattutto agli adulti, a tutti coloro che hanno familiarità con le problematiche educative e formative: insegnanti, operatori socio-psico-pedagogici e pediatrici, oltre che genitori in particolare, dunque ad un pubblico indifferenziato con la sua vasta e varia umanità.
La scelta filmica è motivata dal convincimento che essa renda più e meglio la complessità della vita scolastica, del rapporto docente e alunno e dell’articolazione problematica della didattica, “perché pensare a educare implica soprattutto l’educare a pensare”. Un film testamento di un Maestro, oltre che una testimonianza di un preciso contesto scolastico, sociale e culturale contemporaneo, attraverso il ricordo di uno che Maestro lo è sempre, a scuola e nella vita quotidiana; in lui, infatti, giungono a sintesi istanze consapevoli di professionalità e vocazione, programmazione e improvvisazione, “scienza e arte” afferma lo stesso protagonista in uno dei confronti con la collega insegnante, suo contraltare dialettico.
Dunque, nelle intenzioni, un piccolo-grande dono realizzato con un budget ridottissimo, perciò con una sua atipicità realizzativa, tecnica, estetica e di contenuto. Da tali caratteristiche scaturiscono dei limiti, alcuni dei quali assolutamente inevitabili (la recitazione e dizione, il trucco, il noto fascino sporco del suono in presa diretta, la necessitata irripetibilità di diverse scene girate), senza dimenticare, però, che parecchie riprese sono state effettuate con la tecnica del cinema diretto (meglio, dell’improvvisazione “prevista”) e comunque inserite nel montaggio definitivo, proprio confidando sia nell’indubitabile pregnanza del coerente senso e dei significati particolari sia nel lavoro di spettatori attenti e partecipi. Dal film emergono profondi sentimenti di genuina passione e senso di verità, la stessa sensibilità che caratterizza da sempre il mio sconfinato amore e legame con la terra natale, dove si ramificano le mie radici popolari, con il cinema, per me fonte insostituibile di forti emozioni e di fecondi stimoli intellettuali, e con la professione docente e di educatore, protesa incondizionatamente all’incontro con l’infanzia, nel tentativo spesso riuscito di assecondarne la crescita umana e civile, il loro nutrimento del sapere e l’alimentazione dei sogni.
Se è certamente vero che “i bambini capiscono molto di più di quanto non riescano a farci capire di aver compreso”, coerente appare l’utilizzo del linguaggio cinematografico che, caratterizzato da una forma di comprensione che è allo stesso tempo razionale e affettiva, la definita “ragion logopatia” secondo i “filosofi cinematografici” contemporanei, permette di cogliere la verità della vita dall’interno, e non solo razionalmente, ma soprattutto attraverso intuizioni affettive, estetiche, emotive, che almeno un certo cinema è in grado di offrire. Quello che caratterizza i prodotti banali ed effimeri è il fatto che essi possono essere classificati e capiti una volta per tutte. Mentre ciò che distingue le opere artisticamente valide è la loro straordinaria pluralità di significati che richiede un commento, una interpretazione.
Salvatore Verde