Donatella Di Cicco: "Il mio film sull'impossibilità a vedersi"
Come nasce l'idea per la realizzazione di "Molto Visibile Segretamente Nascosto"?
Donatella Di Cicco: Quando mi è capitato di entrare in contatto con le fotografie di Halina, ho pensato subito di lavorarci sopra, ma questo pensiero era invadente e subito dopo cercato di metterlo da parte, come si fa quando si pensa a qualcosa di impossibile e pure poco corretto. Ho sempre timore di poter offendere oppure turbare le persone, perché magari dentro di me un argomento contiene le potenzialità di un racconto, e di diventare la materia di un lavoro espressivo e narrativo che prima o poi potrebbe essere reso pubblico.
Quindi la costruzione di questo film è avvenuta lentamente, per tappe, e soprattutto dal momento in cui ho cominciato a posare lo sguardo su me stessa.
Prima sono venute le immagini, poi la curiosità di sapere di più di Halina, della sua vita, delle sue cose; e così senza saperlo in un certo senso stavo cercando anche notizie su di me.
È strano, ma la prima volta che ho sentito la necessità di scrivere sulla perdita di mia madre è stata dopo aver conosciuto Vera. Ho usato Halina e la sua storia per rivedere la mia, riprenderla in mano da dove l’avevo lasciata.
Ho ripescato i filmini di famiglia di mio padre, ho rivisto le foto di mia madre da giovane, ho risfogliato album nei cassetti. Ero assetata di immagini che erano passate sotto il mio naso da sempre, ma che solo in quel momento assumevano un significato altro. Tutto aveva una visione nuova, e di tutto non riuscivo a non fare una specie di confronto, di parallelismo con Halina.
Quando mi sono ritrovata alle prese con le immagini da una parte il mio testo che raccontava l’esperienza dalla perdita di mia madre all’incontro con Vera dall’altro, non avevo chiaro come li avrei messi insieme. Sapevo solo che avevo fatto un passo in avanti.
Ho cercato così di costruire la narrazione su questa idea di perdita e d’immaginazione; una delle cose che mi ha affascinato di più quando ho guardato il materiale di Halina è stato il suo mondo immaginario, costruito soprattutto attraverso le fotografie. Per questo trovo importante la riflessione sulle immagini, sul filtro che esse creano. In tutto il film si avverte l’impossibilità a vedersi; infatti i personaggi principali mia madre e Vera, non si vedono mai se non in fotografia. In realtà loro sono delle immagini. Il mio intento era quello di far percepire la loro presenza, senza mai mostrarla .
Si può considerare "Molto Visibile Segretamente Nascosto" un documentario sulla solitudine?
Donatella Di Cicco: In parte sì ma non nasce con questo intento. Anche perchè per solitudine io non intendo un passaggio necessariamente negativo ma piuttosto un’opportunità, come dire, di “viversi”. A volte invece si sente la necessità di non stare soli soprattutto quando questa non diventa più una questione di scelta. Nel film c’è una condizione simile ed è quella di mio padre. Lui è spaventato dalla solitudine, posso capirlo, per un uomo della sua generazione che ha vissuto per trent’anni con mia madre e all’improvviso ritrovarsi da solo non è stato facile, e non lo è tutt’ora. Piuttosto nel film, c’è la percezione di una mancanza, di una figura che a seconda dei personaggi acquista forme diverse. La solitudine diventa una condizione di conseguenza.
Ci può parlare del viaggio intrapreso da Napoli all'Ucraina per incontrare Halina?
Donatella Di Cicco: Ho cominciato piano, piano a maturare l’idea dell’incontro con Halina, prima come un pensiero “assurdo”, poi sempre più reale. Mi sono documentata, ho cercato delle persone che mi potessero aiutare nel viaggio, con l’aiuto di Vera sono risalita ai luoghi in cui gli ucraini si riuniscono per partire con gli autobus da Napoli. Non avevo la pretesa né tantomeno l’illusione di poter cambiare qualcosa, e del resto non era quello il mio obiettivo. Tutto quel lavoro di ricerca intima a ritroso nel passato mi aveva portato a desiderare quell’incontro, a riscattarlo; ora avevo bisogno di andare a cercare fuori da me.
Andare a cercare qualcosa che desse peso e vita alle parole che avevo scritto e che potevano trovare in Halina la loro forma.
L’estate del 2007 quindi decido di prendere quel famoso autobus che parte da Napoli e arriva dopo due giorni in Ucraina. Ci tenevo a fare quel viaggio allo stesso modo in cui lo fanno le persone che arrivano dall’Ucraina, con lo stesso mezzo cui le fotografie di Halina e i suoi video arrivano in Italia, in pacchi e scatoloni che vengono portati pesati e caricati negli autobus. Esiste tutta una realtà e un mondo dietro alla sua storia. Esistono persone che viaggiano in modi assurdi, ho ascoltato racconti raccapriccianti, condiviso con loro queste storie, l’assurdità delle nazionalità ma ho visto anche tante situazioni come quella di mio padre, di uomini italiani e donne ucraine, coppie che si dividevano tra l’Italia e l’Ucraina.
Quando ho intrapreso il viaggio sapevo già come volevo raccontarlo.
Ho capito che il testo scritto un anno prima sarebbe servito in quel viaggio. Ho cercato di mantenere un rigore nelle inquadrature, filmando solo la strada, o meglio ciò che vedevo dal finestrino. Volevo dare la sensazione di uno sguardo assorto, che si lascia portare, che osserva senza parlare le immagini che gli scorrono davanti agli occhi e che allo stesso tempo si lascia andare ai suoi pensieri intimi, con la differenza che questi pensieri per me dovevano essere scritti.
Ho voluto farlo letteralmente scrivendo sul film. Per questo, nella parte del viaggio, non ho usato la voce narrante. La scrittura mi piace molto. Quel momento di scrittura è uno spazio vuoto, una voce sarebbe stata troppo connotativa. Per allontanarmi ho deciso di scrivere il testo in terza persona, affinché creando fuori da me un personaggio “altro”, potessi avere la sensazione di non essere coinvolta, di parlare di un’altra persona. Allo stesso modo parole come “Il padre” o “la madre” assumevano un significato più profondo.
Ha definito il suo film come una "storia del nostro tempo". Ci può spiegare meglio?
Donatella Di Cicco: Ho scelto di chiudere il film con l’intervista ad Halina, in cui lei usa di nuovo la telecamera per parlare alla mamma, ma questa volta dietro ci sono io, e lei con voce risentita dice che è stanca che la gente le chieda di sua madre, le chieda perché la madre non si decide a tornare. In queste parole molto semplici c’è il nodo della questione, l’assurdità, se vogliamo, di una situazione. Quando Halina si rivolge alla madre e le chiede: “Perché non torni?”, anch’io mi sono fatta la stessa domanda. È qui non è più una questione privata, ma diviene una questione collettiva, e in questo senso una storia del nostro tempo.
Questo passaggio per me è fondamentale perché è come un ritorno all’ordine. C’è un doppio incastro: da un lato la vicenda in sé, ovvero il problema dell’immigrazione, dall’altro la decisione di rendere pubblico il racconto intimo tra due persone. Nel film tratto la questione della separazione come normalità, utilizzando anche una forma poetica, per non far diventare il contesto politico oggetto principale del film ma in realtà è assurdo che una persona, e di preciso una donna, una madre, deve abbandonare il proprio paese e i propri affetti, per lavorare guadagnando pochi soldi e vivendo con grossi sacrifici in un paese straniero.
La questione è: perché Vera non può ritornare nel suo paese?
Ovviamente perché non possedendo il permesso di soggiorno, una volta uscita dal paese non potrebbe più rimettere piede in Italia.
C’è un capitolo in "
Chi è il mio prossimo" di Adriano Sofri, dal titolo “
Badanti” in cui Sofri, citando degli articoli di Guido Viale, affronta le problematiche relative alle condizioni lavorative delle immigrate impegnate in ruoli di assistenza familiare; e dice “
entrando così intimamente nella vita, nei sentimenti, nella quotidianità delle persone assistite e delle loro famiglie, le badanti acquisiscono conoscenze sul funzionamento della società italiana, di una profondità che nessun sociologo, psicologo o confessore sarebbe in grado di attingere”. Inoltre: “
L’emancipazione della donna occidentale non è avvenuta a spese dell’uomo, cioè riequilibrando gli oneri della riproduzione sociale tra i generi, ma a spese delle donne del Terzo Mondo, e delle comunità da cui provengono".
Ci può parlare della realizzazione tecnica del documentario, dove "mescola" alle riprese fotografie, filmati in Super 8 e VHS?
Donatella Di Cicco: Una fase fondamentale del lavoro è stata quella della raccolta del materiale.
Avevo il materiale di Halina, le sue fotografie e i suoi filmini, avevo il materiale del mio viaggio, il mio incontro con lei, l’intervista nella sua cameretta.
Avevo il mio racconto che mi teneva legata al punto di partenza, all’origine della storia.
Mi mancava però ancora qualcosa, avevo bisogno di trovare un anello di congiunzione, una strada alternativa al racconto diretto che partiva da mia madre. Avevo bisogno di partire da un punto che fosse da un lato distante ma che allo stesso modo partisse da me. Ho cominciato a guardarmi intorno, e a pensare che la figura di mio padre, fino a quel momento tenuta fuori, non era da sottovalutare.
Tutto il lavoro è raccontato in maniera indiretta, sin dall’inizio non volevo che la narrazione fosse costruita sui personaggi stessi. Volevo che fossero gli altri a rimandare, per riflesso, nozioni sulle persone più importanti. Per esempio mia madre attraverso mio padre e Vera attraverso Halina. Il peso della mancanza di una persona è insopportabile per quelli che restano. Mio padre rispecchiava a pieno tutto questo, ho voluto raccontare mia madre attraverso di lui. Attraverso la sua vita ora senza di lei. Tutto il film è forse un racconto a posteriori. Attraverso i momenti del suo quotidiano, attraverso gli oggetti che invece rimangono immobili e che ricordano senza mai dimenticare, ho cercato così di costruire alcuni aspetti di mia madre su di lui.
La costruzione tecnica è avvenuta quindi pari passo alle necessità narrative e in momenti diversi con modalità diverse.
Per fare tutto questo, ho iniziato a scrivere.
Ho avuto anche la fortuna di essere stata affiancata da persone che mi hanno aiutato e sostenuto soprattutto nel riuscire a districarmi dalla mole di materiale che avevo, dato che questo progetto è stato anche oggetto della mia tesi di laurea all’Accademia di Belle Arti di Brera con i professori Andrea Lissoni e Luca Mosso.
Luca mi ha seguito sin dall’inizio, quando ancora non avevo ben chiaro come avrei messo insieme i vari pezzi della storia. Ricordo che mi disse di scrivere e di provare a confrontarmi con un'ipotesi di sceneggiatura, ho rivisto così in astratto ciò che avevo limpido e reale nella mia testa. Scrivere mi ha dato la possibilità di schierarmi, di decidere il mio punto di vista, di capire da quale angolazione osservare.
Ho scelto di dividere il film in tre blocchi affinché ognuno di essi fosse come un racconto autonomo. Ho fatto in modo che all’interno di ogni capitolo ci fossero accenni di elementi che dovevano essere esplicitati nella parte successiva e quindi rivelati con ritardo.
Mi piace l’idea che il racconto s’introduca in un altro e che vada avanti lasciando delle strade aperte, degli interrogativi. Ho lavorato cinque mesi alla realizzazione del montaggio e spesso sono dovuta ritornare su delle fasi per riprenderle per alternare pieni e vuoti, mischiare i vari materiali è stato quasi un processo automatico.
Il suo lavoro si basa molto anche sul "ricordo". Cosa rappresenta nella sua vita?
Donatella Di Cicco: A volte mi piace riprendere argomenti a distanza di tempo, ricercando le persone, i luoghi, anche solo per nostalgia.
In "
Bright Leaves" (2003) Ross McElwee riguarda le riprese del padre scomparso e, riflettendo, dice che tra un po’ non lo riconoscerà più. Entrerà finalmente a far parte del mondo delle immagini; si chiede anche se queste hanno il potere di mantenere vivo il ricordo delle persone che erano in vita. Ebbene no, diventano altro, sono altro. La stessa cosa è capitata a me nell’osservare le immagini di mia madre nelle foto ricordo, dopo un po’ diventano davvero “persone fatte di fotografie”.
A volte credo che l’esperienza del film mi sia servita semplicemente ad assicurare tutto questo e me compresa a quel mondo delle immagini di cui parla McElwee. Quando torno a casa non posso fare a meno di ritrovare e riguardare le cose ho filmato. È come stare all’interno di un circuito chiuso. C’è un continuo rimando di immagine/esistenza. Non so se mi sento più vicina a ciò che vedo attraverso l’immagine oppure a ciò che vivo.
"Molto Visibile Segretamente Nascosto" ha vinto il Premio come Migliore Documentario della sezione Anteprima Doc ed il Premio Avanti! al Bellaria Film Festival 2009. Che futuro avrà la sua opera?
Donatella Di Cicco: Questo di sicuro non potrò saperlo. Lavorare in prima persona coinvolge molto, ma alla fine ciò che si ottiene è forse qualcosa che non appartiene più alla nostra storia. Rendere pubblico parte del nostro vissuto, significa anche allontanarlo da noi. Sappiamo che non sarà più solo nostro, e allo stesso tempo non ci appartiene più.
Un autore credo che debba fare tutto il possibile affinché questo accada. Il risultato non serve a lui, di sicuro non sotto forma teraupetica, anche se all’inizio potrebbe darne la sensazione e forse anche la spinta per iniziare; quello che si ottiene è secondo me vicino al principio della natura delle immagini, dar vita a qualcosa che ha una sua forza, e che procede in maniera autonoma.
Non si può prevedere ciò che accadrà dopo, lo si cede al mondo delle immagini.
Quando ho finito il film non potevo prevedere che Vera sarebbe partita così presto. Forse troppo presto per me, e per mio padre.
L’immagine ha colmato la distanza ed ha chiuso per il momento il cerchio della narrazione.
Non si fa in tempo a fare un film che subito cambiano le carte in tavola... !
Finalmente è ritornata a casa a riabbracciare sua figlia. Doveva ripartire, il suo passaporto scadeva quest’anno dopo 9 anni di permanenza in Italia. Probabilmente se avesse avuto il permesso di soggiorno sarebbe rimasta ancora un po’, ma non è stato possibile ottenerlo. Mi ha confidato poi di essere stanca, di aver lavorato tanto e di avere voglia di ritornare a casa. Come non biasimarla?
Faccio molta fatica a scrivere oggi perché tutto questo è già passato. La situazione ora è molto diversa, è in continua evoluzione: un lavoro scorre parallelo alla vita di una persona. Fermarsi significherebbe bloccarne il flusso.
È bizzarro il fatto che ora sia Vera pero’ a mandare le fotografie a mio padre.
Lei è diventata reale per Halina ed ha assunto per noi la forma di un’immagine.
C’è sempre qualcuno che viene lasciato o che lascia qualcosa. E in questi casi si viene a creare un legame inevitabile fatto di immagini, di ricordi e riflessi potentissimi. Ancora una volta mi trovo al centro di questi riflessi, al posto di un autobus ora c’è un computer dove arrivano le foto di Vera, le stampo con la mia stampante, le dò a mio padre.
Come considera l'attuale panorama cinematografico italiano?
Donatella Di Cicco: Sono piuttosto ottimista e negli ultimi anni posso dire di aver visto film davvero belli. Uno di questi si chiamava "
Respiro" (2001) di Emanuele Crialese, un film fisico e surreale. Ricordo una scena in cui Valeria Golino lava i suoi cani insaponandoli e bagnadosi insieme a loro. Quella è una cosa che anch’io con mia sorella da piccole facevamo d’estate; per noi era un pretesto per giocare e bagnarci sotto le grida poco convincenti di mia madre, che a tutti i costi voleva mantenere il suo ruolo di madre protettiva, ma in realtà si vedeva benissimo che avrebbe voluto bagnarsi anche lei con noi; sembrava quasi che anche i cani si divertissero... Credo che alla fine ognuno nei film veda un pò quello che vuole e conservi ciò di cui ha bisogno.
07/07/2009, 16:50
Simone Pinchiorri