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Sergio Basso: "Il documentario Giallo a Milano
nasce dal mio amore per la cultura cinese"


"Giallo a Milano" di Sergio Basso, prodotto da La Sarraz di Alessandro Borrelli, un documentario sulla comunità cinese di Milano, "un mondo del tutto inesplorato di sentimenti in gioco, che la gente non arriva a toccare", come viene definito dallo stesso autore, ma principalmente un'opera sulla contemporaneità e sulle problematiche della nostra società.


Sergio Basso:
Come è nata l'idea per la realizzazione di "Giallo a Milano"?
Sergio Basso: Dall’amore per i cinese. Credo che questa popolazione sia antipatica a molti e per questo mi trovo nella posizione imbarazzante di volergli bene. Mi sono avvicinato a questa cultura fin dai tempi dell'università (Lingue e Letterature Orientali a Venezia) negli anni Novanta, poi, ho vissuto in Cina a più riprese, dal 1996 e tre anni fa sono tornato per un periodo a Milano, abitando proprio in Paolo Sarpi, la Chinatown milanese. La distorsione mediatica cui la comunità era sottoposta era evidente: la morsa della polizia sui negozianti, pesante; gli Italiani che non avevano proprio voglia di confrontarsi con i cinesi. Così mi son detto: ma c’è un sacco da raccontare! Un mondo del tutto inesplorato di sentimenti in gioco, che la gente non arriva a toccare. Adesso che il documentario è finito ed è in sala, posso dire che il film parte con il freno a mano tirato. Perché il cuore di ogni documentario è il soggetto: se è "caldo", piglia lo spettatore, che è disposto a perdonare anche i "peccati" del film. Alla fine agli italiani, dei cinesi non gli interessa niente, anzi, gli son pure antipatici. Non sono i brasiliani con il carnevale e il football, né i Congolesi profughi vittime di una guerra civile, quindi "Giallo a Milano" è un'opera tutta in salita.

Come è entrato in contatto con i cinesi di Milano, comunità di solito riservata e schiva ad apparire e come hanno reagito le persone a questa sua "invasione"?
Sergio Basso: Parlando cinese, destavo l’interesse della abitanti della comunità milanese. Inoltre, gli anni che ho dedicato alla loro cultura sono un po’ il pegno, la garanzia che mettevo sul piatto della bilancia. Il lavoro di preparazione del film è durato mesi e la videocamera è stata come un'arma, tirata fuori per ultimo. Di solito lavoro così, stando fianco a fianco alle persone, mettendo a fuoco dei temi ed infine scegliendo chi è migliore per "incarnare" ciò che voglio raccontare. Solo dopo inizio a girare. Per “Giallo a Milano” ho potuto contare su una troupe di amici, molto affiatata e preparata. Lavorando giorno dopo giorno nel quartiere ci siamo conquistati la fiducia della comunità. Alla fine ci cercavano per strada per raccontarci le loro storie o ci telefonavano per avvisarci di alcuni sviluppi che sarebbero stati interessati da seguire.

Le tematiche affrontate, alle quali la comunità cinese deve confrontarsi nella sua opera, sono le stesse del nostro mondo, basti pensare alla visione dell'omosessuale, alle problematiche del lavoro, etc. Si può considerare "Giallo a Milano" come un'opera che mostra le uguaglianze più che le differenze sociali?
Sergio Basso: I cinesi sono come noi e dirò di più, non c’è alcuna comunità, ma una somma di persone che cercano con maggiore o minore successo di conquistare un equilibrio, una dignità, una felicità, formando delle famiglia e credendo nel futuro. La domanda è "ce ne frega qualcosa di queste persone?" Perché è facile continuare a tenere i cinesi a una certa distanza etichettandola come una “comunità”, che suona un po’ come una massa indistinta, compatta, impenetrabile. Invece, sono solo i nostri vicino di casa.

Cosa rappresenta per lei il mondo orientale e che aspetti le interessa di più trattare?
Sergio Basso: Nel documentario o nella vita? Perché son due cose distinte. Il documentario lo prendo un po’ come l’occasione per trattare temi nuovi. Nel film c’è una sola digressione alla quale ho ceduto per amore personale ed è quella sugli artisti cinesi che vengono a studiare a Brera per perfezionarsi. In questo caso, forse, ho avuto un approccio un po’ graffiante: agli artisti dicevo "ragazzi, diamoci una mossa, ma dov’è ‘sta creatività?". Tanto parlare, tanto bizantinismo, tanto citare la cultura classica cinese, ma se poi l’opera non prende lo stomaco dello spettatore, dove vado come artista?” Ecco, è l’unica volta che sono partito, per così dire, all'attacco.

Come ha realizzato le splendide animazioni del film?
Sergio Basso: Grazie per il complimento, che giro subito a Lorenzo Latrofa, che ha realizzato le animazioni. È stato lo stesso produttore del film, Alessandro Borrelli, a metterci in contatto. Avevo detto ad Alessandro: "tutti si aspettano che parliamo di mafia cinese". Allora abbiamo parlato con la polizia di Milano, che ci ha presentato un collaboratore di giustizia, una persona che aveva commesso molti reati, ma dalla fedina penale pulita, e ne abbiamo raccolto la testimonianza. Al che ci siamo posti la domanda: come facciamo a proteggerne l’identità? Quindi, ho pensao subito all’idea dell’animazione. Borrelli mi ha subito supportato dandomi grande energia. Quindi ho contattato Lorenzo, con il quale uno storyboard, scena per scena. Insieme abbiamo fatto una ricerca iconografica, e occupandomi di arte cinese avevo centinaia di immagini che, poi, hanno composto ogni dettaglio delle scene. Inoltre abbiamo cercato di ricreare la Cina usando le foto-ricordo degli immigrati, aiutati da Daniele Cologna, sinologo che da una decina di anni aiuta i Cinesi di Milano. Dallo storyboard siamo passati al videoboard, una versione un po’ abbozzata del cartoon, e per concludere all’animazione definitiva.

"Giallo a Milano" è anche un'opera cross-mediale. Ci può parlare di questo aspetto del documentario?
Sergio Basso: Anche qui devo ringraziare Alessandro Borrelli. Lo affermo perché un giovane regista che ha un’idea deve cercare dei complici e sono rimasto folgorato da Alessandro, una persona con cui mi sono ritrovato subito in sintonia., che ascolta i registi e che crede nella distribuzione dei progetti da lui realizzati. E' una persona che genera energia, che ti rilassa e diventa una dinamo per il tuo lavoro. Parlando con Alessandro del fatto che volevo girare due film, uno, appunto “Giallo a Milano” e un altro più in stile reportage dalla "grammatica visiva" anche "sciatta" ma dai contenuti forti sullo stile della trasmissione di Rai3 “Report” di Raitre, è stato lui stesso a consigliarmi lo sviluppo cross-mediale. Così, mentre montavo, tenevo da parte gli extra, elaborando un’altra drammaturgia per il sito. Parallelamente abbiamo contattato “Il Corriere della Sera”, che è stato entusiasta di ospitare la piattaforma. Ne approfitto per segnalare che il docu-web in rete non è il film in sala, ma l’insieme dell'intersezione delle clip, un 15% in totale. In più ci sono un sacco di approfondimenti sulla diaspora cinese, con il tempo-ritmo dell’utenza internet, che è molto diverso da quello cinematografico. Si può saltare di personaggio in personaggio, o di tematica in tematica, o di locations in location, etc.

Il documentario è attualmente in sala, cosa molto inusuale per questo genere in Italia, Come pensa si possa migliorare la distribuzione di questo tipo di opere? 
Sergio Basso: Questa è una domanda delicata! Ci vogliono distributori coraggiosi ed oggi la distribuzione è prevalentemente costituita da lobby difficilmente penetrabili da idee giovani. Inoltre, ci vogliono opere adatte per andare al cinema, cioè una forma cinematografica del documentario e non una "grammatica" televisiva, come richiede il mercato. Questa funziona, per carità, ma mi chiedo, cosa ci va a fare in sala?

09/03/2010, 20:46

Simone Pinchiorri