Note di regia del documentario "Storie nel Cemento"
La memoria personale dei quattro protagonisti, restituisce non tanto una ricostruzione asettica e oggettiva del luogo e del suo contesto storico, quanto una visione emotivamente coinvolta attraverso il filtro del ricordo e della sensibilità.
Per questo la videocamera, contrariamente a quanto insegnato in ogni manuale di regia, riprende un luogo architettonico vuoto e abbandonato stando in continuo movimento, compiendo quello che è il corrispettivo visivo del viaggio mentale a ritroso dei personaggi che ricordano gli spazi. Si ripercorrono così i tragitti tra le mura, con spostamenti fisici nei luoghi oggi diroccati che i protagonisti si sforzano di ricordare. Nessuno di loro è entrato fisicamente nell’Istituto oggi (sebbene i due di loro che più vivono il ricordo invasivo del Marchiondi siano stati intervistati di fronte all’edificio). Il movimento delle riprese nell’edificio stride con la staticità delle interviste ai personaggi, ognuno al sicuro, stabile, libero (in esterni, seduti), nella convinzione protettiva del proprio ricordo distaccato nel tempo.
Si ricrea così un senso di spostamento e movimento continuo tra quelle mura in cui ciascuno degli intervistati ha vissuto la propria esperienza (chi d’infanzia, chi lavorativa, chi di vita): ognuna simile, ognuna necessariamente influenzata dall’essersi consumata nello stesso spazio (come sostiene Perec ne La Vita istruzioni per l’uso, nella citazione che apre il documentario), ma allo stesso tempo ciascuna con quelle sostanziali differenze che possono rendere ambigua e fragile la traversata all’interno della propria memoria. Tanto da rendere impossibile (e forse irrilevante) UNA verità.
Il tema del Ritorno (con la memoria, ma non solo) è evidente nella scelta musicale “al contrario” che conclude il film2, ma ho cercato di creare un continuo cortocircuito temporale che prende pian piano il sopravvento (l’audio dell’uomo sulla luna, la tv abbandonata in strada dopo lo sgombero mentre Prisco racconta Carosello e il finale con l’audio di Carosello sullo sgombero per esempio).
A contribuire a questo scopo ecco la figura di un “intruso” tra i protagonisti, che porta inevitabilmente lo sguardo verso il futuro: Emil Enea, rom che ha occupato l’architettura con la sua fisarmonica (più vecchia dell’Istituto stesso) e la sua numerosa famiglia3. E ora, sfrattato, deve “guardare avanti” (e chi meglio di una cultura nomade sa guardare avanti?).
Le belle inquadrature, l’”alta definizione” e persino l’ormai onnipresente 16:9 non mi sono da subito sembrati adatti a raccontare queste Storie nel cemento in cui niente è “definito”, niente è bello/patinato, niente è sicuro. Il formato 4:3, ormai quasi dimenticato mi è sembrato la soluzione meno “panoramica” e più “concentrata”, più “raccolta”. Il 4:3 è un formato della televisione che oggi è caduto in disuso. Alla fin fine è un “edificio abbandonato” anche lui.
Fritz Lang dice: “non voglio una ‘bella’ fotografia, niente di ‘artistico’, voglio una fotografia da cinegiornale. Perché credo che un film serio che rappresenta la gente di oggi debba essere una specie di documentario del suo tempo.” Mi è sempre sembrato un buon principio.
Francesco Clerici