Note di regia di "Amoreodio"
Le figure del male
L'idea del film nasce dal desiderio di voler approfondire, conoscere, indagare l’animo di una persona che si appresta a commettere un crimine. Questo spunto, associato ad un fatto di cronaca nera accaduto in Italia, mi ha dato l’opportunità di poter affrontare ancora una volta un tema che è stato già alla base dei miei cortometraggi: il male. Le figure del male – visibili sotto diversi aspetti e forme – permettono di creare sempre un conflitto interessante. Nel caso di personaggi, questi si prestano perfettamente ad uno studio critico e ad un approfondimento che va al di là del visibile. Un “cattivo” anima dibattiti, sollecita le persone ad un giudizio, fa interrogare sul senso delle azioni. La presenza di questo “male” rende inevitabilmente drammatici i miei film. Questo è il motivo per cui finora mi sono concentrato esclusivamente su questo genere; non perchè non consideri le commedie come film di valore, ma perchè credo fortemente in questa direzione intrapresa e al mio personale percorso artistico. La cosa curiosa è che con “Amoreodio”, per la prima volta in una mia opera, il male viene incarnato dalla protagonista e non da un antagonista, cosa che complica definitivamente quel concetto di identificazione e di proiezione di sé dello spettatore verso i personaggi mostrati sullo schermo.
I personaggi femminili
Altra caratteristica delle mie sceneggiature – e di conseguenza, dei miei film da regista – è la presenza costante di una protagonista femminile. Non saprei spiegare questa predilezione per i personaggi femminili, se non per il fatto che se guardo ai temi trattati, probabilmente riconduco il sesso femminile al “sesso debole”, ovvero a chi il male lo subisce. Nei miei cortometraggi ci sono due donne che subiscono il giudizio sui loro orientamenti sessuali, una ragazza che elabora e affronta l’abuso subìto da bambina e un’altra donna che vive la dolorosa esperienza della guerra. Come ho già detto, in “Amoreodio” la situazione si ribalta: il male è perpetrato principalmente da Katia, la protagonista. A proposito di personaggi femminili, ci sono due affermazioni di un maestro come Francoise Truffaut che tengo sempre a mente ogni qualvolta rifletto su questo aspetto:
Il cinema è un'arte della donna, vale a dire dell'attrice. Il lavoro del regista consiste nel far fare delle belle cose a delle belle donne e, per me, i grandi momenti del cinema sono la coincidenza tra le doti di un regista e quelle dell'interprete da lui diretta.
L’altra riguarda la donna come ruolo cruciale in una storia:
Ho sempre pensato che le storie, i racconti, non potevano che essere imbastiti intorno a una donna, perchè le donne – ed è la stessa cosa in letteratura – conducono la trama con più naturalezza degli uomini. Se vogliamo, è il contrario dei western fordiani, nei quali basta che accada qualcosa e si nascondono le donne al riparo sotto le diligenze, mentre gli uomini si battono. Se facessi un western, farei sicuramente in modo che le donne non restino al riparo sotto le diligenze. Altrimenti avrei l’impressione che non succede niente.
Il mio rapporto con lo spettatore
I miei personaggi restano spesso in silenzio. Quando parlano on screen è per ribadire delle affermazioni forti, non semplicemente per mandare avanti la storia. Cerco un dialogo diretto con il pubblico del cinema, per creare un legame intimo con i protagonisti. Per questo utilizzo solitamente delle voci over, che oltre a dare una certa eleganza al film, creano maggiore interesse e rappresentano il metodo ideale per poter entrare nella mente dei personaggi e per poter comunicare una sensazione personale. In “Amoreodio”, però, accade qualcosa di diverso: non vi è più una voce over che avvicina emotivamente il personaggio allo spettatore. E’ la stessa protagonista che si allontana da tutti – dallo spettatore e dalla realtà che la circonda – poichè è lei stessa ad essere fredda e cinica. E’ quasi impossibile identificarsi in lei. Dal punto di vista etico e morale è un personaggio che non ha nulla da condividere con noi. Piuttosto, lo condivide con il suo fidanzato. Ed è così che il rapporto tra Katia e lo spettatore viene filtrato attraverso mezzi che dividono i personaggi sullo schermo dalla nostra realtà. Dalla voce over quindi sono passato all’occhio indiscreto di una webcam, alla chat di un social network, all’immagine fredda di un onnipresente cellulare. Tutti filtri che diventano il simbolo della menzogna, della finzione, della finta normalità di facciata, che nasconde sotto la superficie la rabbia repressa e diventa premessa di un’imminente esplosione.
Influenze cinematografiche
Lo studio sul soggetto è avvenuto tramite articoli di cronaca, libri di psicologia criminale, osservazione della realtà adolescenziale degli ultimi anni. Dal punto di vista cinematografico è sempre difficile poter dire quali autori e quali film abbiano davvero influenzato la mia scrittura. Posso solo analizzare la sceneggiatura a posteriori e vederci dentro quelle opere o quegli stili che inconsciamente hanno guidato le mie scelte. I piccoli film indipendenti americani su tutti, quelli che ogni anno riempiono le selezioni del “Sundance Film Festival” per intenderci. Mi sento di citare i personaggi e una certa visione di Gus Van Sant, un piccolo gioiello – “Afterschool” – di un giovane regista di nome Antonio Campos, alcune tematiche e opere di Michael Haneke (tra cui “Benny’s Video”), una narrazione ispirata a “La fiamma del peccato” di Billy Wilder, visioni e strutture di Chabrol, Hitchcock e tutti quei noir e quei thriller che hanno fatto storia.
Cristian Scardigno