Note di regia del documentario "La Nave Dolce"
Nel 1991 avevo 24 anni ed ero uno studente universitario impegnato politicamente. Di quell’anno ricordo bene gli avvenimenti. Avvenimenti epocali come la guerra in Iraq, lo scioglimento dell’Urss e l’arrivo della Vlora.
Ricordo l’arrivo della Vlora come una sorta di cataclisma mediatico. Questa nave stracolma di esseri umani che fuggono da una condizione che non ritengono più sopportabile, nudi e sofferenti, si contrappose alle immagini della guerra in Iraq che fu una sorta di orrendo “videogioco” fatto di traccianti notturni, obiettivi di missili che scomparivano al momento dell’impatto, immagini satellitari anonime e grigie. All’epoca studiavo il cinema e le teorie della comunicazione e riflettevamo su queste immagini. Da una parte il trionfo della derealizzazione, della “rimozione del tragico” che la post-modernità teorizzava e gli eserciti praticavano, dall’altra l’insorgenza del reale, seppure imprigionato nei palinsesti televisivi. Ricordo che sarei voluto andare a Bari, ma il mio impegno di lavoro estivo non me lo permise.
Alcuni accadimenti storici assumono senso nella coscienza di ciascuno di noi come nella coscienza collettiva, e cambiano la nostra percezione del tempo e dello spazio, ci conquistano e ci modificano. Sono eventi apparentemente marginali, che invece cambiano la Storia sotto i nostri occhi, dettano il tempo di immensi cambiamenti: l’arrivo della nave Vlora nel porto di Bari l’8 agosto del 1991 è uno di questi. Quell’approdo impressionante è stato l’innesco di una rivoluzione socioculturale di proporzioni fino ad allora inimmaginabili. In Italia nel ’91 c’erano poco più di 300.000 stranieri, oggi ce ne sono quasi 6 milioni!
A distanza di vent’anni la ricerca di quelle immagini archiviate è stata per me un’esperienza straordinaria: stavo scavando nei miei ricordi di cittadino-spettatore ma con la consapevolezza che il tempo trascorso mi ha concesso.
E questa ricerca ha dato fin da subito esiti insperati: le televisioni locali e quelle nazionali avevano centinaia di ore di girato vergine nei magazzini e negli archivi. E’ la profezia di Zavattini: negli archivi giacciono immagini impazienti di prendere vita. Una cosa preziosissima, la nostra memoria collettiva registrata su nastri magnetici in via di smagnetizzazione salvati con fatica, e con ampio margine di casualità, su supporti digitali.
Lavorare sui repertori cinematografici o televisivi di eventi così importanti è un po’ come lavorare “dentro” la coscienza collettiva. E’ una grande responsabilità quella di utilizzare repertori per costruire narrazioni, perché in quei repertori c’è la morte, c’è la disperazione, ci sono i desideri e le frustrazioni di esseri umani in carne ed ossa, c’è la vita vera.
La rievocazione in immagini di quell’evento si è subito rivelata di un fascino e di una potenza che immaginavo solo in parte. Le televisioni avevano lasciati liberi i loro operatori di seguire interamente gli avvenimenti, forse perché ad agosto non succede mai niente di così importante, forse perché “inconsciamente” a tutti era chiaro che quella cosa andava documentata davvero, chissà. E gli operatori si erano subito trasformati in cineasti capaci di documentare con nitidezza, stupore e continuità quell’evento straordinario. Stesso risultato in Albania. Negli archivi privati e nell’Archivio di stato abbiamo trovato la storia in immagini. Quando ho visto tutto questo materiale ho provato la stessa emozione che provo quando vedo insieme al montatore il girato di un film da me realizzato: conosco già tutto, ma è una continua scoperta.
Mi sono innamorato fin da subito di queste lunghissime riprese e fin da subito con Benni Atria ci siamo detti: beh, è come se avessimo spedito le nostre troupe indietro nel tempo a documentare un avvenimento già accaduto. Quindi dobbiamo montarle così, come se fosse il film che abbiamo girato noi, dobbiamo tener fede all’intenzione che muove la ripresa, allo stupore che le informa e dobbiamo sfruttarle per la loro forza evocativa, dobbiamo rintracciarvi il progetto drammaturgico che “inconsapevolmente” quei bravi operatori hanno messo in campo. Quegli operatori stavano raccontando il radicale mutamento storico che di lì a poco l’Italia e l’Europa avrebbero subito, e che accadeva sotto i loro occhi. Com’è accaduto per l’omicidio di Kennedy, per la “caduta del muro”, per il G8 di Genova, per l’11 settembre 2001…
Contemporaneamente al lavoro sugli archivi audiovisivi, con Antonella Gaeta abbiamo cominciato una ricerca di “storie”. Antonella ha ripercorso palmo a palmo la vicenda ed ha individuato alcuni preziosissimi testimoni diretti, persone coinvolte nei fatti. Non è stata una ricerca semplice, io avevo in mente solo il percorso: quello della nave. Per me i testimoni in un film come quello che stavamo disegnando avrebbero dovuto essere capaci di re-immergersi nella storia, “riviverla” davvero, emozionalmente. Perché non bastano le immagini, anche se straordinarie, a far rivivere un avvenimento, in un film così ci vuole la vita vissuta, ci vogliono le emozioni e le idee che hanno spinto quegli uomini e quelle donne ad attraversare il mare con una nave in avaria, rischiando la vita.
Con Gherardo Gossi abbiamo costruito un set “astratto”, uno sfondo bianco, come una lavagna luminosa su cui far vivere le emozioni dei testimoni, nella loro purezza, nella loro freschezza. In modo che tra un testimone e l’altro ci fosse un’assoluta continuità emozionale e narrativa, una limpidezza del percorso. Ecco, volevo che le testimonianze fossero limpide.
Non volevo più sentire le parole “extracomunitari”, “profughi” ,“disperati” a favore delle parole “uomini”, “donne”, “bambini”. È grazie alle testimonianze dirette delle persone, anche degli italiani che accolsero e/o respinsero quei 20.000 albanesi, che è possibile fare il “contropelo” alla storiografia ufficiale, sempre troppo lineare e consequenziale per essere non dico vera, che sarebbe già molto, ma viva. Non è la ricerca di una verità purchessia; in un film più che la “verità”, io penso debba esserci la vita. Come penso dovrebbe esserci anche nei libri di storia. Quando in un libro di storia non trovo la vita ma solo l’ingegneria dei fatti, il mio interesse di lettore scema in fretta. Questo per me è centrale: rimettere la “filosofia” con i piedi per terra, altrimenti le vite individuali sono solo numeri e funzioni, i popoli soltanto masse indistinte e i fatti storici semplicemente accadimenti da analizzare.
Ma non è facile raccontare un evento collettivo al cinema, il territorio privilegiato del racconto cinematografico solitamente è l’eroe o l’antieroe. La nave dolce si intreccia nella mia coscienza di narratore con Diaz. Non so dire fino in fondo il perché, ma sento che hanno qualcosa in comune. Oltre alla casualità di essere stati realizzati contemporaneamente, parallelamente, entrambi raccontano episodi collettivi che rappresentano una porzione di avvenimenti storico-politici più grandi e complessi. Ma entrambi nell’essere la “pars pro toto” tentano di restituire il senso del tutto attraverso l’esperienza di una molteplicità di persone.
Come Diaz, La nave dolce è un film che mi si è imposto, mi ha costretto a superare lo schema narrativo in tre atti, prendendo a prestito strutture più ampie dalla tragedia e dalla narrativa classica. I due film sono una sfida radicale ai miei limiti di narratore, devo ammetterlo. Infatti sono due “mostri” che mi hanno fatto soffrire e gioire come non mi era mai accaduto prima.
E come Diaz, La nave dolce è frutto di un grande lavoro collettivo, reso possibile dalla determinazione e dalla passione della Indigo Film e della Apulia Film Commission.
Daniele Vicari