Note di regia di "EU 013, l'Ultima Frontiera"
Sono anni ormai che sono finito con l'occuparmi di immigrazione in Europa. Da quando sono rientrato in Italia nel 2010 dalla Siria. E' stata la conseguenza naturale dell'esperienza fatta con i rifugiati in Medio Oriente e della scelta di tornare a casa, in Sicilia, a Trapani, lungo il confine meridionale della frontiera Schengen. Prima che dell'immigrazione mi sono interessato della migrazione. Prima di tutto della mia e della mia generazione. Il viaggio è l'essenza della mia esperienza di vita: esplorazione e ricerca, conoscenza attraverso i posti e la gente incontrata lungo il cammino. Non avevo un pelo sulla faccia la prima volta che sono scappato di casa. Scappare all'epoca era l'unico modo per sopravvivere alla realtà stretta addosso, sulla pelle, della mia città agli inizi degli anni '90.
Mentre io viaggiavo, spesso senza meta, attraversando confini, lingue e paesi diversi, la maggior parte delle persone che incontravo non aveva la stessa fortuna. Molti di loro erano in fuga dalla guerra e dalla persecuzione settaria. Molti erano in viaggio da mesi e aspettavano in Siria di poter continuare verso l'Europa.
Quella stessa Europa che, mentre io crescevo con la fortuna di appartenere alla prima generazione Schengen della storia, approfittando al meglio della possibilità datami dalla libera circolazione, stava cominciando a buttare le basi per la costruzione di una appartenenza identitaria nuova, quella comunitaria, quella europea.
Oggi rivedo gli ultimi anni con più consapevolezza. E anche in questo, ancora una volta, la mia città mi aiuta. All'epoca non era ancora possibile comprendere appieno le dinamiche e le ragioni di quello che stavamo vivendo. Era troppo presto per ogni analisi.
La prima volta che ho sentito parlare di un CIE, all'epoca CPT, è stato il 28 di dicembre del 1999. Ero maggiorenne da 20 giorni e mi sentivo finalmente libero. Quella notte all'interno del CPT di Trapani, il primo di Italia, aperto nel luglio del 1998 per effetto della legge 40, meglio conosciuta come Turco-Napolitano, accadde qualcosa di terribile. Gli immigrati trattenuti diedero fuoco ad un materasso per protesta, conviti che le guardie avrebbero aperto la porta della cella. Quella porta si aprì troppo tardi. Sei persone persero la vita nel rogo del Serraino Vulpitta nella notte tra il 28 e 29 di dicembre del 1999.
Da quel giorno ad oggi nulla di buono è successo. Il tempo massimo di trattenimento all'interno dei CIE è passato dai 30/60 giorni di allora ai 18 mesi di oggi. In Italia si contano 13 CIE e di recente sono stati stanzianti fondi per la costruzione di altri centri.
Ormai probabilmente si è perso il senso di tutto questo, nessuno ha più la capacità di interrogarsi sul ruolo di questi posti. Sappiamo che sono luoghi dove finiscono gli irregolari, i così detti clandestini. Non sappiamo quanto costano e non sappiamo nulla di come vengono realmente gestiti gli appalti per le forniture e per l'impegno delle forze dell'ordine. Molto spesso non li vediamo neppure. Vengono costruiti lontano, nelle periferie, lungo le autostrade, vicino agli aeroporti. Non sappiamo nulla di chi vi finisce rinchiuso, ne lo vogliamo sapere. Pensiamo, semplicemente, che sono luoghi indispensabili in una società moderna. Abbiamo accettato, inconsapevolmente, quello che questi posti sono e quello che rappresentano: sono dei luoghi di detenzione disumana dove si viene privati della libertà personale non per quello che si è fatto ma per quello che si è. In altre parole sono i lager di oggi. Istituzioni totali chiamate a preservare l'integrità di una comunità sana, Noi comunitari, minacciata dalla presenza di soggetti ritenuti socialmente pericolosi, gli extra-comunitari, gli Altri.
Con Raffaella Cosentino abbiamo cominciato a ragionare sulla necessità di un lavoro che raccontasse i CIE in modo diverso, più sincero. Senza prendere le parti degli uni o degli altri ma raccontarli entrambi. All'inizio non pensavamo di avere grandi possibilità di accesso alle strutture. Questi sono posti dove l'ingresso è stato reso impossibile per anni. Maroni nel 2011 vietò addirittura l'accesso alla stampa, reintroducendo di fatto la censura nel nostro paese. Poi la Cancellieri, nel suo periodo di permanenza al Viminale, ritirò la circolare di Maroni e qualcosa per noi cambiò. Ho incontrato personalmente il ministro Cancellieri. E' stato il giorno in cui ho ritirato il premio Maria Grazia Cutuli 2012. Ho colto l'occasione al balzo: “vorremmo realizzare un documentario sui CIE. E' possibile ragionare ad un accesso unico?”.
Dopo mesi di lavoro per trovare un intesa con il Ministero e con i vari Dipartimenti coinvolti, finalmente a febbraio del 2013 arriva l'autorizzazione. Qualcosa di ben lontano da quello che ci eravamo immaginato ma per la prima volta il Ministero autorizzava un'intera troupe all'ingresso per due giornate consecutive all'interno di diversi CIE. Per noi questo ha rappresentato una grande occasione: la possibilità di descrivere lo spazio e il tempo all'interno di un CIE.
Visto il poco tempo che avevamo a disposizione, non c'era la possibilità di individuare dei protagonisti con cui sviluppare un percorso narrativo. Quella che stavamo raccontando era una storia collettiva e come tale andava rappresentata. Ci è voluto un grande lavoro di mediazione per realizzare questo progetto. Prima di tutto bisognava fare capire ai detenuti quello che stavamo facendo. Non è facile quando hai poche ore a disposizione e davanti decine di persone che sono convinte di essere vittime di un ingiustizia e gridano, l'una sull'altra si spingono per avvicinarsi alla telecamera. Poi ci sono le forze dell'ordine che non ti vogliono li ma che non possono farci niente: hai un decreto del Ministero che ti autorizza a starci. Per loro sei un problema. Hanno paura di quello che potrebbe succedere da un momento all'altro. Ti chiedono di non entrare, di non filmare. Poi ci sono Bruno e Andrea, la mia piccola grande troupe, che in un CIE non ci sono mai entrati prima e che non sapevano neanche cosa fossero. Le mura, le sbarre, le telecamere di sorveglianza, i cancelli, le grida, i pianti, le botte su di loro hanno avuto l'effetto di un tuffo di pancia da 20 metri. Sopravvivi ma ti fai male.
A tutti abbiamo dato la possibilità di esprimersi. Gli ho chiesto di farlo in italiano. Questa è una storia italiana e la lingua è quello che meglio rappresenta il grado di integrazione in una società. Quasi nessuno ha avuto problemi a farlo. La maggior parte di loro sono in Italia da anni. Quelli che arrivano direttamente dagli sbarchi sono sicuramente un numero minore ma il CIE resta l'epilogo ideale per il viaggio di molti approdati in Europa nell'era di Schengen. L'ultima frontiera da abbattere è innanzitutto un limite mentale che dobbiamo sapere superare.
Alessio Genovese