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Note di regia de "Il 5 Aprile mi Uccido"


Note di regia de
Torino, 27 agosto 1950. Una stanza dellʼalbergo Roma. Unʼannotazione sulla prima pagina del suo libro “Dialoghi con Leucò”: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Con queste parole Cesare Pavese si congeda dalla vita. Aveva 42 anni. Ho sempre pensato alla straordinaria dolcezza e rabbia che si esprimevano attraverso quelle semplici parole. Alla lapidaria domanda, “Va bene?”, ironica quasi e disperata al tempo stesso, una richiesta di approvazione almeno per quest'ultimo gesto, racchiusa allʼinterno di una frase che contiene delle scuse e una preghiera. Si è formata in me l'immagine di un uomo invaso dalla vita con la quale non riesce però ad accordarsi e che lo logora, lo strema, lo fiacca. Un uomo che perde il passato e non sente il futuro, tutto appoggiato al presente, che tenta di 4 interagire con grande sforzo e volontà con un mondo assurdo, che si allontana sempre di più da lui. Una disarmonia delle emozioni, dei sentimenti, delle intenzioni che costringe l'uomo, che non vuole farsi assurdo e privo di significato, ad uscire della condizione umana, a diventare un mostro e a vedere la realtà per ciò che è. Un'angosciosa caduta di senso della vita corredata da un impalpabile “senso di colpa” nei confronti di chi è vicino ma non può capire, e che non hanno parole per essere espressi. Ma il privarsi di emozioni e di passioni, il vivere in un silenzio impossibile da rompere costa fatica. Una fatica che porta alla decisione del suicido come ultimo atto di libertà da un mondo che visto nella sua essenza sembra intollerabile. A queste mie riflessioni fin da subito si legano pensieri riguardo la poetica dell'assurdo di Albert Camus. Ho pensato allora di raccontare la storia di un uomo ormai uscito dall'umano, la parte finale della sua vita, senza mostrarne le cause, la normalità piena di dolore del passaggio dalla vita ad una fine programmata. Decisione che si concretizza allʼinizio del film, con la scelta del giorno eletto ad ultimo della sua vita, dettato dal caso, scorrendo un calendario appeso alla parete: per lui ormai la morte è indifferente. Così come si pianifica un viaggio, una cena, lui decide di pianificare la morte. Durante il periodo che lo separa dal congedo dalla vita incontra diverse persone. Pur cogliendoli nella loro quotidianità di gesti e di percorsi, i personaggi hanno lo stesso tono del protagonista come se lui intonasse la voce di tutti. Le varie figure hanno lo stesso incedere dell'uomo che ha scelto di morire, così da creare un'atmosfera compatta e di assoluta irrevocabilità della scelta del suicidio. Incontri con l'assurdo della realtà: figure che hanno accettato una fede, che hanno inventato un senso alla vita, che si aggrappano ad emozioni prive di sostanza, senza averne coscienza, che si illudono di poter sentire la vita affannandosi a viverla per quello che non è. Quest'uomo invece vive un presente che sa essere sempre identico a se stesso e che non cambia. Non intende mentirsi. Ho deciso di girare il film utilizzando come ratio il 4:3 perché lo ritengo un film sullʼuomo e credo questo il formato più prossimo alla dimensione umana, quello in grado di porre lʼuomo al centro dellʼinquadratura, di far esplodere la sua emotività. Partendo da qui ho deciso di costruire inquadrature che siano dei contenitori di sguardi e di azioni che si esauriscono al loro interno, chiudendole a qualsiasi ingresso dal fuori campo, generando uno spazio e un tempo il più 5 vicini possibili alla voce del protagonista, al suo mondo ormai chiuso e prossimo alla fine. Ho scelto di utilizzare dei campi medi fissi e di lunga durata che permettono di sentire il flusso delle emozioni che li percorrono, l'assurdo della realtà che si manifesta in quegli istanti e soprattutto per lasciare la possibilità agli attori di vivere dentro le inquadrature, di riempirle. Ho utilizzato sia attori professionisti che non, ballerini e persone senza alcuna esperienza cinematografica, scegliendoli in base a chi sono nella vita di tutti i giorni e non in base alla loro capacità di recitare, cercando di capire quali sono le emozioni che li dominano per far sì che queste apparissero in scena. Dei tipi insomma più che degli attori. Durante le riprese iniziavo con una improvvisazione guidata e da questa cominciavo a codificare gesti e parole fino ad arrivare alla loro stilizzazione, all'essenzialità dei gesti e degli sguardi. Questo permetteva di fare in modo che la loro natura di uomini prendesse rilievo e che il film si nutrisse della loro spontaneità e vitalità. Ho utilizzato il suono per costruire lo spazio delle inquadrature, per comprimerlo, per seguirne il ritmo interno attraverso i lunghi silenzi, i rumori d'ambiente e i dialoghi. La fotografia è stata utilizzata per dare nitidezza ai colori e alle forme, immergendole in spazi scuri o fortemente illuminati, per non dare scappatoie allo sguardo. Un film che vuole anche essere una ricerca all'interno del linguaggio cinematografico.