Note di regia di "87 Ore"
In quel mondo a circuito chiuso, le videocamere di sorveglianza servivano a osservare i pazienti. Immagini a scatti che restituiscono la meccanicità della procedura, la reificazione dei corpi, una disumanità filmata da un occhio disumano che si sostituisce alla relazione degli esseri umani con gli altri esseri umani. Quando ho cominciato a studiarle, mi sono apparse immediatamente come l’espressione del grado zero della coscienza. I corpi bidimensionali, privati di ogni soggettività, inseriti in un meccanismo che porta all’assuefazione, all’addormentamento della ragione. Tutt’altro che facile decidere di realizzare il film e tutt’altro che facile portarlo a compimento. Dopo un prologo in cui possiamo solo intuire ciò che è accaduto, siamo catapultati in un mondo che ha delle regole proprie e solo con questo siamo chiamati a fare i conti. Assumiamo un punto di vista che sorveglia, isola, imprigiona, contiene Francesco Mastrogiovanni nell’inquadratura quasi fossero - l’inquadratura e la contenzione meccanica a cui è stato sottoposto - lo stesso identico strumento di tortura. In questo mondo robotico la questione della durata si è posta subito come fondante.
Quanto possono essere sopportabili quelle immagini? Quanto durerà ancora quell’orrore? Il montaggio procede nella individuazione di diverse unità d’azione lungo la cronologia, per cercare di restituire il fluire ininterrotto di quella insensatezza. Ed è proprio lì, in quel fluire ininterrotto che si sciolgono tutti i fotogrammi mancanti di quelle immagini a scatti. Apparentemente i fatti si accumulano come si accumula la terapia farmacologica o la contenzione nell’alternarsi sempre uguale dei giorni e delle notti e invece, nello scorrere del tempo, vi è nascosta la chiave per comprendere ciò che è accaduto: ogni giornata corrisponde a un nuovo capitolo in un percorso lineare in cui la narrazione e la comprensione finiscono col coincidere. Ed è sempre e solo la narrazione, il fine ultimo del film, perché solo attraverso la narrazione si può elaborare l’orrore a cui è stato sottoposto Francesco Mastrogiovanni. Ciò che non vediamo e ciò che vediamo si completano. La narrazione, quindi, non ha per oggetto l’evidenza sconcertante dei fatti ripresi da quelle videocamere di sorveglianza, ma la portata di senso di quei fatti e la loro elaborazione. Le chiavi di lettura sono frutto dello studio non solo del corpus di quelle immagini, ma anche dei tanti documenti, giudiziari e non, che sono serviti a qualificare le immagini stesse. Quando usciamo da quell’anonimato continuo, approdiamo al mondo delle relazioni umane: i familiari di Francesco Mastrogiovanni e la visita alla sua casa non sono che un tentativo di condivisione. La ricerca di un rimedio alla rimozione, lo sforzo difficilissimo di opporsi a ciò che sembra essere l’epilogo naturale, quando il materasso viene portato via e rimane un letto di ferro scarno nella stanza ripulita pronta ad accogliere un nuovo paziente. Oggi le videocamere di sorveglianza sono il nuovo punto di vista sul mondo; per certi versi è quanto di più contemporaneo esista, ma c’è una cosa che rende questo non-luogo un luogo archetipico: il modo in cui viene esercitato il potere sul corpo umano. Solo un diverso modo di guardare può interrompere la catena di uno sguardo organico al potere: a dirci come è morto Mastrogiovanni non è infatti il racconto della sua sofferenza, né la crudele indifferenza di quelle immagini, ma uno sguardo, uno sguardo umano, quello del medico legale che osserva il corpo ormai libero da quelle cinghie di contenzione che per giorni hanno stretto caviglie e polsi. L’osservazione diretta, l’unica osservazione possibile, di un essere umano verso un altro essere umano. La relazione con un corpo che non può più parlare ma che può essere ancora ascoltato.
Costanza Quatriglio