Note di regia di "Su Campi Avversi"
Su campi avversi è il risultato di una ricerca su due fronti e a due voci, per ritrovare l’umano in un territorio ideologico come quello delle migrazioni e della crisi agricola e non solo, del bracciantismo, dello sfruttamento sociale e ambientale. L’astrazione permette di isolare due storie lontane e intrecciate, senza perdersi nell’enumerazione delle cause, senza addentrarsi sul sentiero complesso delle proposte. I migranti subsahariani protagonisti e il contadino piemontese sono simboli di una condizione, ma anche eccezioni. Martin e i braccianti stagionali, le loro speranze disattese e il loro isolamento, non sono il pretesto per un confronto tra i poli di un dramma sociale, sono solo uomini, reali, effetti collaterali contigui di una crisi globale e locale che coinvolge tutti gli abitanti del territorio. Non è ciò che differenzia le loro situazioni, il loro modo di soffrire o di reagire, ma le loro affinità a permettere di ricostruire la loro umanità. Il film vuole restituire voce e dignità a due storie che non sono per forza esemplificative, ma offrono una fotografia materica, cruda di alcuni dei personaggi che popolano la scena contemporanea.
Quella di Martin è sì una storia simbolo di una generazione che si è “mangiata tutto”, ma allo stesso tempo l’affresco di un’esistenza a sé stante: un uomo, con un contorno ben definito, con i suoi eccessi e i suoi errori. Nel campo, le telefonate, i dibattiti, le confessioni davanti alle tende, i silenzi sono rivelazioni intime e senza tagli, quasi rubate a quegli uomini in stallo.
Su campi avversi è il capitolo più recente del progetto crossmediale nato nel 2013 La Terra che connette, che vuole offrire nuove prospettive di osservazione dell’incontro scontro tra migranti stagionali e autoctoni sullo scenario di quello che è il terzo comparto frutticolo italiano, il saluzzese, attraverso gli strumenti del cinema e del web blogging. A differenza però di altre fasi del percorso, in questa sede non si indagano le ragioni ambivalenti di un disagio sociale ed economico, ma si mette al centro il dramma dell’uomo, le sue peculiarità, le sue contraddizioni, le sue esagerazioni e soprattutto l’isolamento, indotto o cercato e la spossatezza di fronte a un tempo che non passa, che non risolve, ma peggiora solo le cose.
In questo scenario di ruoli e dolori così diversi, ma così intrecciati al destino di questa terra, non si cerca un dialogo tra i due estremi della storia: Martin e i migranti protetti e isolati dai loro rispettivi “recinti”, confortati dai loro reciproci “campi”, non si incontrano e non si scontrano. Le loro esistenze, ridotte ai bisogni essenziali dalle loro rispettive strade avverse, scorrono lentamente, parallele e speculari. L'autoctono e il migrante, che vivono ai margini del terzo comparto frutticolo nazionale, diventano in questo modo metafora delle frontiere continentali e i luoghi che abitano allegoria dei paradigmi della gestione di un territorio frammentato e discontinuo: il campo e il recinto.
Allo stesso tempo ci sembra, scavando un altro poco, di vedere che i migranti e il contadino autoctono abitino in realtà i medesimi "campi avversi" e così reinterpretiamo in chiave "olistica" il titolo del film. Quello che sembrava un elemento di separazione e contrapposizione, diviene elemento di unione o per lo meno di contingenza. Una visione inedita di quello che sta succedendo alla società italiana, a cominciare dai margini, dalle periferie, dalla provincia. Rimanendo intimamente legato alla quotidianità degli uomini e dei luoghi che racconta, il film in due parti, mostra i legami indissolubili tra locale e globale, evidenziando come la raccolta delle pesche e delle mele del nord Italia possa influenzare la coltivazione di un campo di arachidi in Burkina Faso.
Andrea Fenoglio e
Matteo Tortone