Note di regia di "Solo"
“
Cresciuta nel silenzio, oggi la ‘ndrangheta è l’organizzazione che fa più paura, quella più potente,
più pervasiva. (…) I produttori di droga la preferiscono perché, contrariamente alle altre mafie, è
affidabile: non parla, né si pente. L’asfissia familistica la rende invulnerabile: il sangue non scolora
e imprigiona con i suoi obblighi”.
(N. Gratteri, A. Nicaso - Fratelli di Sangue)
E’ in questo mondo così feroce e complesso che si addentra il nostro protagonista, Marco (Marco
Bocci), un poliziotto che prova ad infiltrarsi nella ‘ndrina che controlla il territorio della piana di
Gioia Tauro. Il suo obiettivo è quello di bloccare un gigantesco accordo tra un narcotrafficante
turco e il clan capitanato dal boss Antonio Corona (Renato Carpentieri) e suo figlio Bruno (Peppino
Mazzotta). Il porto di Gioia Tauro con i suoi quattro chilometri di molo è infatti un crocevia
fondamentale per i corrieri della droga. Ma ottenere la fiducia del vecchio boss non è un’impresa
facile. All’arrivo di Marco in Calabria scoppierà una faida tra i Corona e i Gargano, un’altra ‘ndrina
che vorrebbe beneficiare dei proventi del porto fino ad ora sotto l’egemonia della famiglia rivale.
Marco dovrà, suo malgrado, partecipare a questa guerra tra le fila dei Corona, arrivando perfino
ad uccidere per loro. Ma proprio grazie ai suoi gesti estremi acquisterà sempre più fiducia e
prestigio all’interno della ‘ndrina. Dove lo porterà tutto ciò? Fino a dove si spingerà? Cosa è
disposto e perdere per portare a termine la sua missione?
Solo è un poliziesco con una struttura narrativa apparentemente classica. Ma lo scopo del
racconto è quello di esplorare le dinamiche umane di un uomo pronto a rischiare tutto per
raggiungere il suo obiettivo. Un uomo ossessionato dal suo lavoro, dalla sua missione, unico scopo
della sua vita. Sta in questa traccia la ragione per cui ho deciso di affrontare questi quattro film (la
serie è composta da quattro puntate da cento minuti) nel tentativo di raccontare questa storia con
la mia visione. Mi ha colpito da subito come gli intenti (del produttore e degli autori) fossero quelli
di raccontare le vicende umane dei protagonisti di questa storia fino a rendere quasi invisibile il
plot poliziesco. E in questa struttura c’è quindi lo spazio per alternare con equilibrio l’azione con la
rarefazione, la tensione con la tenerezza. C’è infatti una specie di triangolo amoroso all’interno
della storia che caratterizza il percorso dell’infiltrato pronto a costruirsi una nuova vita, rischiando
di allontanarsi per sempre dalla sua donna (Diane Fleri) per salvare quella che ha tutte le carte in
regola per diventare una vittima innocente della sua stessa famiglia: Agata, la figlia del boss
(Carlotta Antonelli).
Il mio obiettivo è stato da subito quello di mettere lo spettatore nella condizione di credere a ciò
che vede, senza rischiare che l’illusione filmica fosse troppo ardua da raggiungere. Gli interpreti
sono ovviamente un ingranaggio fondamentale per la realizzazione di questo processo. Tutti gli
attori mi hanno dato molta fiducia e si sono lasciati guidare nella direzione del realismo. Marco
Bocci si è allontanato dai toni dei personaggi da lui interpretati in precedenza e ha disegnato il suo
personaggio calandosi nei suoi silenzi e nelle sue inquietudini, lasciando che le paure e le tensioni
implodessero come sarebbe costretto a fare un vero poliziotto infiltrato in una famiglia mafiosa. Il
personaggio dell’antagonista principale è stato interpretato da Peppino Mazzotta. Era un ruolo che
rischiava, come capita spesso per i cattivi, di essere bidimensionale. Ma lui è riuscito a dargli una
complessità piena di sfaccettature, un villain all’altezza dell’eroe, credibile e mai fumettistico,
ossessionato (anch’esso) dalla sua missione: conquistare sempre più potere sulla piana.
Il punto di vista della messa in scena per me è stato chiaro da subito, avevo bisogno che lo
spettatore vivesse le stesse paure e le stesse inquietudini del protagonista. E per ottenere questo
scopo ho fatto uso come già nel mio film (Senza Nessuna Pietà) della macchina a mano, linguaggio
che rende a mio avviso la narrazione molto asciutta e realistica. Supportato da una fotografia (il
direttore della fotografia è Valerio Azzali, già operatore di macchina per esempio del
documentario Lousiana di S. Minervini) che ha messo in valore i paesaggi desolati e potenti di una
Calabria vista raramente in televisione, ci siamo spinti a filmare i luoghi reali in cui la ‘ndrangheta
si muove. Con un importante lavoro di ricerca degli ambienti (location scoperte e arredate con
cura dallo scenografo Andrea Castorina) è stato possibile girare per due mesi nelle cittadine di
Palmi e di Gioia Tauro, fin dentro il porto, supportati dagli enti locali e dall’entusiasmo dei cittadini
che ci hanno accolto.
Michele Alhaique