Una coreografia di "C'era una Volta Studio Uno"
“
Un gradino alla volta” è la battuta di un giovane macchinista Rai che vuole diventare cameraman e che inquadra al meglio il risultato della nuova fiction "
C’era una Volta Studio1".
Facendo una panoramica rapida sul mondo dell’audiovisivo, è chiaro che l’attenzione si sta spostando rapidamente sui prodotti seriali per tv e nuovi media. Dalla nuova legge Franceschini, che non sarà più esclusivamente per il Cinema ma più ampiamente indirizzata all’audiovisivo, alla carenza di film per la sala di questa prima parte dell’anno, pare giustificata da una migrazione dei produttori dal cinema, sempre meno seguito in sala, verso la fiction seriale sempre più richiesta e produttiva. Per non dimenticare i miliardi di dollari (due, cinque, comunque tanti…) annunciati da Netflix per la produzione di programmi dei suoi canali.
Studio1 è un piccolo passo verso quella qualità che si auspica possa un giorno portare la nostra fiction a gareggiare alla pari con quella americana o anglosassone o comunque a fare bella figura in tutto il pianeta.
C’è di buono la scelta coraggiosa di raccontare un’Italia in bianco e nero, polverosa e stantia agli occhi dei più giovani ma tanto rimpianta dal grosso del pubblico di riferimento. Di meno coraggioso c’è la scelta di scrivere, dirigere e recitare alla vecchia maniera italiana, con sottolineature, ammiccamenti e spiegazioni che, malgrado nascoste in un complesso fluido e piacevole, appaiono difficili da superare. Non basta essere “giovani” bisogna essere nuovi, (proprio come era Studio1) intendendo diversamente il modo di considerare e rivolgersi al pubblico per quello che è adesso, esperto e consapevole e non più bue e con il telecomando incastrato sui soliti canali.
Questa storia raccontata in due puntate punta molto sulla ricostruzione precisa e accurata di scenografie e costumi ma sembra aver bisogno di spiegare allo spettatore che le cose che vede sono realmente successe all’inizio degli anni 60, che quella era l’Italia, con i suoi limiti e le grandi speranze. Ed è proprio questa esigenza di spiegare, di rapportare sempre il passato (quello che avviene sullo schermo) con il presente ( lo spettatore nostalgico o giovane e da catturare), ad appesantire l’operazione.
Nella fiction italiana si continua a produrre per lo spettatore, senza tanto curarsi di cosa gli piaccia ma con l’esigenza di farsi piacere. Quando gli attori, magari in secondo piano, ammiccano o commentano con lo sguardo o con una battuta ciò che avviene in primo piano, è chiaro che stanno suggerendo al pubblico come considerare la scena, creando un filo con lo spettatore che e andando lentamente e inconsciamente a sgretolare la credibilità degli eventi del film. Un filo con lo spettatore che deve esserci, ma non deve essere costruito attraverso una comunicazione diretta.
Comunque, a parte l’operazione amarcord, le due puntate dirette da
Riccardo Donna e scritte da
Lea Tafuri e Lucia Zei, risultano piacevoli e di buona ideazione e saranno capaci di ottenere ottimi risultati d’ascolto. Per il salto di qualità c’è da lavorare ma, un gradino alla volta…
01/02/2017, 15:26
Stefano Amadio