Note di regia di "Maternal (Hogar)"
Estate, ora della siesta. Caldo umido. Un ventilatore cigola. La porta di una stanza semiaperta. Una ragazza di diciassette anni dorme abbracciata a sua figlia. Le due sdraiate di fianco, la schiena della bambina contro il petto della mamma. Mi fermo a guardare, colpita dall’ambivalenza della visione. Quando il mio sguardo è a figura intera, è un’immagine materna: una madre abbracciata a sua figlia. Se però lo restringo a un primo piano, l’immagine è infantile: i visi che dormono sono quelli di due bambine.
Dietro di loro, appesi al muro, poster di cantanti, scritte e cuori: il mondo di un’adolescente. Intorno al letto, sul pavimento, un gran disordine: giocattoli, un passeggino, una cartella da cui escono libri e quaderni. Appesi a uno stendipanni si asciugano un bavaglino, un reggiseno, un paio di jeans. L’olfatto conferma l’ambivalenza visiva: nella stanza dominano odore di latte materno, spray per i capelli e scarpe da ginnastica sudate. La respirazione è ritmica, di coppia. È l’immagine ispiratrice del film. Per tanto tempo ho lavorato a Buenos Aires in un istituto religioso italiano per madri adolescenti. Non mi sono fermata sulla soglia a spiare dai corridoi, sono entrata nelle loro stanze, le ho ascoltate e osservate, ho condiviso le loro inquietudini, ci siamo conosciute.
Mi è stato possibile, e forse necessario, perché in MATERNAL c’è tanto di me, del mio presente e del mio passato: l’odore d’incenso della bambina cattolica, le amicizie e gli amori dell’adolescente assetata di passioni, il senso di maternità della donna. Sono diventata per loro una figura familiare, empatica e insieme invisibile. Da questa posizione interna, personale ed emotiva ho iniziato a scrivere un film sulla loro singolare storia di giovani donne. Quando mi sono avvicinata di più al mondo delle religiose che le seguono, ho sentito che stavo vivendo un’esperienza complessa e unica: la maternità adolescente non era l’unico paradosso con cui mi stavo confrontando. Una sedicenne incinta impressiona lo sguardo. Un viso di bambina che allatta porta con sé una contraddizione commovente. Ciò nonostante, è stata l’immagine epifanica di una giovane suora che cullava uno dei loro figli che ha messo in moto il film: in quel momento ho realizzato tutta la potenza del cortocircuito emotivo di un mondo femminile chiuso, paradossale e affascinante in cui la maternità precoce delle ragazze convive con quella assente delle religiose. La scrittura ha seguito il desiderio di evocare la complessità e le contraddizioni di questo universo singolare (…)
Maura Delpero