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SERGIO BASSO - "Il mio documentario musicale"


"Dimmi chi sono" racconta in musica le vite e i sogni dei giovani profughi di un campo in Nepal


SERGIO BASSO -
Dopo una lunga fase produttiva, lo scorso autunno il "musical documentary" "Dimmi chi sono" di Sergio Basso ha iniziato da Amburgo la sua vita festivaliera. Dopo la pausa forzata dovuta al lockdown, nell'estate 2020 è al via anche un ciclo di proiezioni italiane che lo vedrà mercoledì 22 luglio a Torino nella rassegna Cinema a Palazzo.

"Dimmi chi sono" ha richiesto una lunga lavorazione.

Vero, è iniziato tutto nel 2008 quando per la prima volta sono stato a visitare il campo profughi in Nepal dove vivono oltre 100.000 esiliati bhutanesi in attesa di essere “ricollocati”. Tornando a casa mi interrogavo su come avrei potuto raccontare la loro storia...
Poi ho messo tutto da parte perché dovevo finire "Giallo a Milano", dopo il Torino Film Festival 2010 in cui ha esordito abbiamo ricominciato a lavorarci. Mi ricordavo di aver visto i ragazzini che si divertivano provando su musiche di Bollywood un numero per una festa, quello è un loro lessico e mi veniva servita su un piatto d'argento la possibilità di narrarli in un modo a loro non "alieno".

Come hai sviluppato il racconto?

Ho pensato che raccontare gli adolescenti sarebbe stato l'elemento forte del progetto. Gli adulti del campo si ricordano il "fuori", i 40enni lottano per tornare ad una casa che i ragazzini non conoscono, loro vogliono solo uscire. L'idea di poter andare negli USA o in Norvegia per i più giovani è l'occasione da cogliere per uscire dal terzo mondo, perché i più vecchi vogliano incaponirsi a tornare in Bhutan proprio non lo capiscono...
Dopo un lungo percorso nella musica tradizionale del posto, sentendo e registrando decine e decine di canzoni tipiche, sono tornato in Italia per farle sentire a Pivio e Aldo De Scalzi, con cui in passato avevo già lavorato. A loro ho chiesto di riarrangiare quelle musiche, poi abbiamo ricomposto le interviste che avevo fatto ai vari ragazzi scrivendo i testi del musical, che ho chiesto agli stessi ragazzi di interpretare.

Un percorso decisamente unico.

Sì, e anche molto istruttivo per me, in tanti sensi. Perché nel 2014 avevo già pronto il budget, ma una serie di traversie e poi il terremoto in Nepal nel 2015 sembravano aver fatto arenare il progetto. Tutto merito del mio produttore Alessandro Borrelli se non è successo, lui si è impegnato moltissimo e nel 2017 siamo finalmente riusciti a farlo.
Questo lavoro mi ha insegnato la resistenza, mi ha dimostrato che se si vuole fare un film così, se "tieni botta" per 10 anni alla fine ce la puoi fare. È stato davvero un grande lavoro produttivo.

Come sta reagendo il pubblico a questo documentario?

Dopo tanta fatica per realizzare il progetto e arrivare al pubblico è sempre pazzesco come sia positivo e semplice, per certi versi, farlo accettare da chi lo vede. Da Amburgo in poi mostrarlo in sala è stato sempre liberatorio e commovente, la prima visione su uno schermo enorme (e con un audio pazzesco!) è stato un battesimo importante anche per me...
L'idea era quella di usare l'energia di una dodicenne per parlare di una tragedia, per bucare il muro di gomma della nostra disattenzione. Non colpevolizzo nessuno per questo, siamo tutti oberati di richieste d'aiuto e di sensi di colpa con cui la nostra generazione centra poco. Ma questa è la situazione e il compito di un cineasta è anche quello di trovare la maniera di sfondare la stanchezza dell'ascolto.

I ragazzi del campo ti hanno seguito facilmente?

È stato tutto molto naturale con loro! Questo viene definito un "musical documentary", il percorso è documentaristico, il 35% del film è stato girato dalla mia macchina, è stato tutto messo insieme con materiali eterogenei (fare la color è stato complesso...) girati nell'arco di 9 anni.
In Asia la gente ha una flessibilità artistica pazzesca, sono capaci di entusiasmi incredibili che aiutano molto, in Italia è più difficile trovare chi ha questo entusiasmo. Devo dire anche che sono tornato molte volte nel campo durante gli anni, mi conoscevano bene e hanno capito che non ero lì per rubare qualche immagine commovente e andarmene. Alcuni di coloro che ho intervistato poi sono andati via, ma con i social media mi sono tenuto in contatto con tutti loro e ho costruito la fiducia alla base della riuscita di "Dimmi chi sono".

E ora? Cosa può esserci dopo un film di questo tipo?

Adoro fare documentari, da quando l'ho chiuso ho ricevuto alcune nuove proposte e le ho accettate. Ma ammetto che un po' questa avventura mi ha prosciugato, non ho ancora avuto lo stimolo giusto per lanciarmi in un nuovo progetto di documentario tutto mio...

20/07/2020, 16:15

Carlo Griseri