STATE A CASA - Brutti, sporchi e cattivi (più che mai)
Lo ricorderemo così, il "periodo" Covid? Ci ha imbruttito così tanto o eravamo brutti già prima? Ci si può fidare - non tanto delle altre persone - quantomeno di noi stessi? C'è un'amarezza immensa che fuoriesce dalla visione di "
State a casa", ritorno al cinema del regista
Roan Johnson dopo qualche anno di assenza (e molta tv, soprattutto con "I delitti del Barlume").
Se l'impostazione base pare riconoscibile, con un gruppo di giovani chiamati in circostanze straordinarie a confrontarsi, rivelarsi e conoscersi meglio (già vista sia ne "I primi della lista" sia in "Fino a qui tutto bene" e un po' anche in "Piuma"), lo sviluppo è tutto nuovo. E sorprendente, perché questi quattro coinquilini fiaccati dalla crisi economica e bloccati dalla pandemia in una casa che si dimostra troppo stretta per una convivenza forzata, sono lontani parenti dei giovani dei film precedenti, sempre capaci di trovare il bello della vita, nonostante tutto.
O forse sono sempre loro - siamo sempre noi - che a furia di dichiararsi "resilienti" a ogni situazione si sono trovati senza accorgesene mutati, peggiorati, incattiviti. Pronti a sfruttare una irregolare (convinti di aiutarla), ad approfittarsi di un cadavere - nel caso - e a rimpallarsi colpe e responsabilità senza alcun rimorso di fatto. La morte (temuta, vicina, vista, toccata) è intorno a noi, è troppo tardi per scansarsi: "stare a casa" è l'unica soluzione possibile, uscire appare inutile.
Se produttivamente una storia come quella di "
State a casa" è l'ideale da affrontare in periodi di ristrettezze come questi (ancor più che economici, per il numero di persone da coinvolgere sul set e per il cast ridotto), forse come pubblico non siamo ancora pronti a vederci sbattuto in faccia in cosa ci siamo trasformati. Il timore che non sia uno specchio "deformante" quello che ci si trova di fronte è troppo grande.
02/07/2021, 16:40
Carlo Griseri